Operatività del limite minimo di distanza tra edifici

Secondo il Consiglio di Stato, ed una consolidata giurisprudenza, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, nel senso che lo stesso, essendo stato emanato su delega dell’art. 41 quinquies della L. 17 agosto 1942, n. 1150 (inserito dall’art. 17 della L. 6 agosto 1967 n. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati (Cass. civ., Sez. II 14 marzo 2012 n. 4076).

Secondo la Suprema Corte (S.U., n. 14953 del 20011), ferma restando la distinzione fra i Comuni provvisti e quelli sprovvisti di Piano Regolatore Generale, la detta prevalenza normativa del D.M. n. 1444 del 1968, sulla norma regolamentare locale, stante l’inidoneità di quest’ultima ad apportare modifiche a norme di rango superiore, quale quella di cui all’art. 9, comma 2 (in tema di distanze tra edifici), D.M. n. 1444 cit.., implica, evidentemente, un contrasto normativo, da risolversi nel senso dell’applicazione della “distanza minima” stabilita dal D.M., in luogo di quella meno gravosa prevista del Piano Regolatore Generale che, invece, ove prescriva una distanza fra edifici maggiore di quello minima di metri 10, deve essere applicata, in conformità con il principio di diritto appena visto.

Se la finalità dell’art. 9 del D.M. cit., è da ravvisarsi nell’intento di evitare la formazione tra edifici frontistanti di intercapedini nocive, con la prescrizione di una distanza “minima” inderogabile, non è impedito ai Comuni di adottare, nella formazione dei piani regolatori generali e dei regolamenti edilizi locali, in forza dell’autonomia loro riconosciuta dall’art. 128 Cost., nonchè in base alla L. n. 1150 del 1942, art. 33, regole che, con la medesima efficacia delle fonti primarie del diritto, siano più rigorose, sulla base di valutazioni discrezionali degli interessi pubblici da tutelare.

Le disposizione di cui al D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative ed inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con il limite minimo di distanza tra edifici è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (Consiglio di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 5759; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 354).

In pratica non sono computabili ai fini delle distanze solamente:

— gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare);

— le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali);

— le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;

— gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità.

Non possono invece essere escludersi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che per le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l’uso abitativo dell’edificio (Consiglio di Stato, sez. IV, 05 dicembre 2005, n. 6909).

In conclusione può dirsi che:

– l’art. 41 quinquies della Legge n. 1150 del 1942, integrato dall’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 , nella parte in cui stabilisce che la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore a quella di ciascun fronte dell’edificio da costruire, fa riferimento alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (Cass. civ., sez. II, 16 febbraio 1996, n. 1201);

– l’art. 9 del citato D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell’intercapedine (Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 2001, n. 1108; Consiglio di Stato, sez. V, 19 ottobre 1999, n. 1565); conseguentemente le distanze fra le costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di guisa che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina in materia per equo contemperamento degli opposti interessi (Cass. civ., sez. II, 16 agosto 1993, n. 8725);

– la distanza di dieci metri, che deve sussistere tra edifici antistanti, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano (Consiglio di Stato, sez. V, 16 febbraio 1979, n. 89). Tale calcolo, infatti, si riferisce a tutte le pareti finestrate e non soltanto a quella principale, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2001, n. 4715), indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o della progettata sopraelevazione, ovvero ancora che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass. civ., sez. II, 3 agosto 1999, n. 8383);

– il computo della distanza tra edifici, in base alle norme del più volte citato D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, nel caso in cui le pareti dei fabbricati non si estendano linearmente in altezza, ma che manifestino rientranze e sporgenze, deve operarsi distinguendo fra gli sporti dalle ridotte dimensioni, aventi scopo meramente ornamentale e decorativo, da quelli costituenti sporgenze di particolari proporzioni, destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono, dei quali soltanto deve tenersi conto nel computo anzidetto, essendo veri e propri corpi di fabbrica che determinano un aumento dell’edificio in superficie ed incidono quindi sulla consistenza volumetrica dello stesso (cfr. Cass., Sez. II, 26 novembre 1996, n. 10497) nonché di altre sporgenze, quali i balconi, che vengono ad ampliare in superficie e in volume il fabbricato da cui sporgono, occupando lo spazio che deve invece rimanere libero per assicurare il prescritto distacco (Cass. civ., sez. II, 24 marzo1993, n. 3533).

 

Riferimenti:

Consiglio di Stato, sez. IV, 07/12/2017, n. 5753

D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, art. 9

L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies

L. 6 agosto 1967 n. 765, art. 17

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