Iscrizione ad un partito politico e condotta politicamente “dinamica” di un militare

Il Consiglio di Stato affronta il tema dell’iscrizione ad un partito politico e della condotta politicamente “dinamica” di un militare richiamando, nella sentenza in esame, in primis, l’art. 49 della Costituzione secondo cui la facoltà di partecipare alla vita politica della Nazione mediante l’iscrizione a partiti politici rappresenta un diritto politico fondamentale di ogni cittadino, caratterizzante l’attuale ordinamento democratico.

Un’eventuale limitazione di tale fondamentale presidio di libertà del singolo e di garanzia della permanenza del carattere democratico della Repubblica è peraltro possibile, ai sensi del successivo art. 98 Cost., per specifiche categorie di cittadini, tra cui “i militari di carriera in servizio attivo”, a mezzo di legge.

È evidente – si legge in sentenza – che tale legge non possa che essere chiara, specifica ed univoca e, soprattutto, che debba essere interpretata, quale norma recante un’eccezione ad un principio costitutivo della Repubblica, in forma strettamente restrittiva, senza alcuna possibilità di esegesi estensive o, comunque, non direttamente e rigidamente conseguenti all’articolazione testuale della disposizione.

Il testo costituzionale, peraltro, delinea una mera facoltà del Legislatore di introdurre “limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici”: secondo il Collegio giudicante quindi la regula juris costituzionale di base è nel senso dell’assoluta identità di condizione giuridica del civis in armi rispetto agli altri quanto alla facoltà di iscriversi a partiti.

Allargando la visuale, poi, il medesimo Collegio osserva che, allorché il legislatore ha inteso escludere in toto il diritto di iscrizione a partiti politici, lo ha fatto con ben altra chiarezza dispositiva (v, art. 114 L. n. 121 del 1981, la cui efficacia è stata più volte prorogata ma che allo stato non è più vigente, secondo il quale <<Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell’articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall’entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all’articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici>>).

In sentenza non manca poi uno sguardo al diritto internazionale convenzionale e comunitario:

– l’art. 11 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, premesso che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione”, ammette che “l’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate” possa essere sottoposto a “restrizioni legittime”, locuzione nella cui area semantica, per quanto ampiamente considerata, non può farsi rientrare la radicale preclusione;

– la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce, all’art. 12, che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico”, senza accennare neppure a possibili forme di limitazione per specifiche categorie di soggetti;

– l’art. 20 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo prevede che “ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica”;

– il Patto internazionale sui diritti civili e politici, all’art. 22, ammette che il “diritto alla libertà di associazione”, riconosciuto ad ogni “individuo”, possa essere oggetto, per quanto attiene ai “membri delle forze armate”, di “restrizioni legali”, non già, dunque, di una radicale esclusione.

L’interprete, pertanto, è tenuto a formulare coordinate ermeneutiche atte ad evitare in radice il rischio di tali possibili contrasti, alla luce sia del disposto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, sia del fatto che il relativo accertamento è, nell’ordinamento del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, sottratto alla cognizione e decisione del Giudice nazionale e rimesso ad organi giurisdizionali di origine pattizia e carattere sovranazionale.

In conclusione, si afferma in sentenza che la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare.

A conclusioni frontalmente diverse si addiviene, invece, ove il militare non si limiti alla mera e per così dire “statica” iscrizione ad un partito, ma spenda una condotta politicamente “dinamica” mediante l’assunzione di cariche all’interno di una formazione politica.

Mentre, infatti, la mera iscrizione, quale adesione ideale alle scelte politico-ideologiche di un partito, non presenta, in sé, un contenuto attivo e propositivo, al contrario l’assunzione di cariche direttive veicola la possibilità di incidere ab interno su tali scelte, contribuendo a determinarne profilo, direzione ed intensità.

Tale condizione, poi, accentua (recte, nell’attuale società della comunicazione sostanzialmente impone) l’esposizione sociale e mediatica dell’interessato, potenzialmente suscettibile di essere chiamato a dare conto dell’indirizzo politico della formazione cui aderisce ed a parlare in nome e per conto di essa in plurimi contesti pubblici, ossia a svolgere, in varie forme, attività di “propaganda politica” (espressamente vietata dall’art. 1472, comma 3, D.Lgs. n. 66/2010).

Questo diverso ed assai maggiore grado di magnitudine dell’impegno politico determina, quindi, una frizione con il richiamato principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche: posto, infatti, che lo status di militare non è limitato agli orari di servizio ma, sia in ottica ordinamentale sia nella più ampia considerazione sociale, attiene alla persona e ne segue e connota l’operare, quelle dichiarazioni pubbliche, quelle scelte programmatiche, quelle polemiche politiche sarebbero inevitabilmente ricondotte dal generale pubblico (anche) alla Forza Armata cui l’esponente partitico appartiene e per la quale continua a prestare contestualmente servizio attivo.

Questa indebita commistione, conclude il Collegio di Palazzo Spada, si apprezzerebbe in misura esponenziale nell’ambito locale ove vive (e dove solitamente presta servizio) il militare: tale status, con ogni verosimiglianza, ne aumenterebbe la visibilità e l’identificabilità e, in tal modo, determinerebbe altresì la riconduzione di quella attività partitica, in sé necessariamente “politica” e legittimamente “di parte”, ad un’istituzione strutturalmente e costitutivamente neutrale quale sono e debbono in ogni circostanza rimanere e dimostrare di rimanere le Forze Armate.

Riferimento:

Art. 49 Cost.

Art. 98 Cost.

Consiglio di Stato, sez. IV, 12/12/2017, n. 5845

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