Dott. Ludovico Sburlati
Il risarcimento del danno in materia di proprietà industriale, disciplinato dall’art. 125 c.p.i., di recente ha formato oggetto di numerose pronunce della Corte di Cassazione, che hanno anche approfondito i rapporti con la disciplina dell’art. 158 l.d.a., precisando che le riscontrate differenze di regolamentazione costituiscono il frutto di “una consapevole e deliberata scelta differenziatrice adottata dal legislatore del 2006”, di cui “l’interprete non può che prendere atto, senza che sia possibile elaborare interpretazioni omologanti” (Cass. 21832/2021).
Iniziando dalle questioni relative all’interpretazione dell’art. 125 comma 1 c.p.i, importante è soprattutto il riferimento all’art. 1226 c.c., che consente una valutazione equitativa del danno, poiché, come precisato dalla Suprema Corte, è spesso “difficile quantificare gli effetti pregiudizievoli della condotta contraffattiva, dovendosi, di frequente, ipotizzare quale sarebbe stato lo sviluppo del mercato in assenza della violazione, secondo un giudizio controfattuale” (Cass. 5666/2021).
Analogo richiamo agli art. 1223, 1226 e 1227 c.c. è contenuto nella proposizione iniziale dell’art. 158 comma 2 l.d.a.
La seconda parte dell’art. 125 comma 1 c.p.i. presenta invece una prima particolarità interessante ai fini della ricostruzione della funzione del risarcimento del danno in questa materia, evidenziata nella citata ordinanza della Corte di Cassazione n. 21832/2021, in cui si afferma che, riferendosi anche al parametro dei “benefici realizzati dall’autore della violazione”, la disposizione “si apre ad una logica non puramente indennitaria, nella quale si dovrebbe arrestare alla considerazione delle conseguenze economiche negative per il titolare del diritto violato, compreso il mancato guadagno, per esigere la ponderazione di altri aspetti definiti “pertinenti””, introducendo così “un elemento di per sé non rilevante in chiave strettamente indennitaria e invece significativo in una prospettiva riparatoria”.
Significative peculiarità emergono invece dall’art. 125 comma 2 c.p.i., il quale, in primo luogo, prevede la possibilità di liquidare i danni “in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano”; in secondo luogo, introduce il criterio della cd. giusta royalty, stabilendo che “in questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso”.
I rapporti tra questa disciplina e le ordinarie regole in materia di responsabilità extracontrattuale sono stati trattati dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 24635/2021, in cui si è ritenuto che la norma non costituisca “una deroga in senso stretto alla regola ordinaria sul risarcimento dei danni e al relativo onere probatorio, ma rappresenti una semplificazione probatoria che pur presuppone un indizio della sussistenza dei danni arrecati, attuali o potenziali”, precisando che la liquidazione non può essere effettuata “sulla base di un’astratta presunzione” e, in applicazione degli art. 1223 e seg. c.c., non si può “dunque prescindere dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori”.
Ciò vale anche per la giusta royalty, poiché “la successione letterale e logica tra le norme dei primi due commi esprime l’intento del legislatore di non sganciare il criterio risarcitorio del “giusto prezzo del consenso” dalla norma generale di cui al primo comma, che richiama, appunto, i principi generali dettati dagli artt. 1223 ss., c.c.”.
Le questioni relative all’applicazione dell’art. 125 comma 2 c.p.i. hanno anche formato oggetto dell’ordinanza n. 5666/2021, in cui la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui “il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore de[l] risarcimento del danno liquidato in via equitativa che però non può essere … utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale”.
La pronuncia in esame affronta inoltre la questione della maggiorazione royalty, talvolta operata dalla giurisprudenza di merito, giungendo ad affermare, anche sulla base della disamina dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia Ue (in particolare Corte Giust. Ue 25/01/2017, causa c-367/15), che “non vi sono … specifici riferimenti normativi da cui dedurre una doverosità, nell’ordinamento nazionale, della maggiorazione della royalty normalmente pratica nel mercato di riferimento”, trattandosi di un criterio che opera come “limite minimo al risarcimento del danno da lucro cessante”.
Un’altra decisione della Suprema Corte ha inoltre ritenuto applicabile il criterio della cd. giusta royalty anche a “controversie soggette alle norme generali anteriori al codice della proprietà industriale”, essendo utilizzabile “come uno dei molteplici criteri a disposizione del giudice del merito secondo gli artt. 1226 e 2056 cod. civ.” (Cass. 20236/2022).
Simile alla disciplina ora esaminata è quella prevista dall’art. 158 comma 2 l.d.a., i cui problemi applicativi sono stati compiutamente trattati nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21833/2021, che si segnala in particolare per l’approfondimento dei profili riguardanti i “fattori di moderazione” dei profitti restituibili, tra cui vanno considerati, in primo luogo, “i costi sostenuti dall’autore del plagio, il quale ha l’onere di fornire sul punto, ai fini dello scomputo, elementi concreti di calcolo, quali i bilanci, le scritture contabili, i contratti conclusi con i terzi ed ogni altro elemento utile allo scopo, potendo peraltro il giudice disporre, al riguardo, idonea c.t.u., la quale dia conto dell’incidenza media dei costi sui ricavi nel settore di mercato considerato…”.
Quanto alla necessaria depurazione dei costi, qui argomentata con riferimento al nesso di causalità, va osservato che, come emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 8944/2020, essa è implicita nella nozione economica di “utili”, che “impone di considerare … non l’intero ricavo derivante dalla commercializzazione del prodotto contraffatto, quanto il margine di profitto conseguito da colui che si è reso responsabile della lesione del diritto di privativa”. Invero, i fattori negativi “(quali ad esempio i costi produttivi e di distribuzione) concorrono a determinare l’utile e la mancata considerazione di essi porterebbe alla valorizzazione di un elemento economico diverso da quello preso in considerazione dalla norma”.
Per quanto concerne la determinazione degli utili rilevanti, in una recente sentenza il Tribunale di Torino, sulla base di una consulenza tecnica, ha fatto riferimento alla “differenza tra il valore del fatturato generato dal prodotto in contraffazione e il totale dei costi incrementali (ossia dei costi variabili direttamente imputabili alla produzione e al commercio dei prodotti in contraffazione, con esclusione dei costi generali e commerciali) …, senza dunque considerare i costi fissi” (Trib. Torino 2464/2021).
In un’altra pronuncia, senza lo svolgimento di una consulenza tecnica, ci si è invece avvalsi dell’”indice di redditività Ros”, indicato dalla stessa attrice nella relazione sulla gestione ex art. 2428 c.c, il quale “rappresenta l’incidenza percentuale del margine operativo netto sui ricavi”, indicando “in sostanza … l’incidenza dei principali fattori produttivi (materiali, personale, ammortamenti, altri costi) sul fatturato” (Trib. Torino 2811/2022).
Le questioni relative all’applicazione dell’art. 125 comma 3 c.p.i sono state invece approfondite dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21832/2021, la quale, anche sulla base di argomentazioni tratte da fonti internazionali, ha stabilito due principi diritto, affermando che la restituzione degli utili può essere chiesta dal titolare del diritto di privativa senza che sia necessario allegare e provare, in primo luogo, “che agli utili realizzati dal contraffattore, sia corrisposto un mancato guadagno da parte sua”; in secondo luogo, “che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo”.
Dalla lettera della norma si desume chiaramente che la restituzione degli utili attiene al ristoro del lucro cessante, atteso che tali utili possono essere chiesti “in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”.
Nella citata ordinanza si precisa che “tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente”.
Sotto il profilo processuale, si afferma inoltre che la restituzione degli utili “costituisce una vera e propria domanda che deve essere proposta entro la soglia fissata dalla legge processuale per le preclusioni assertive, quindi quantomeno entro il termine della prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6”.
Nel contesto del più ampio dibattito sulla natura e sulla funzione del risarcimento del danno, l’ordinanza in esame si segnala infine per l’affermazione secondo cui la restituzione degli utili “non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su un particolare arricchimento ingiustificato”.
Da ultimo, per completare il raffronto con l’art. 158 l.d.a., è opportuno precisare che questa norma “non ha raccolto la previsione facoltativa della Direttiva concernente la retroversione degli utili e il suo riferimento agli utili realizzati in violazione del diritto gioca solo come elemento di cui il giudice deve tener conto in sede di valutazione del lucro cessante” (Cass. 21832/2021).