Avv. Paola Maria Ceccoli
Avvocato Cassazionista del Foro di Milano
[ex Dirigente dell’Avvocatura Comunale di Milano, con incarico di Direttore Aree I e VIII]
Da quando esiste Whtasapp, la messaggistica istantanea si è imposta sempre di più nel quotidiano di ciascuno di noi, ormai cittadini del mondo: persone che si trovano in paesi diversi, anche a notevole distanza fra loro, oggi comunicano agevolmente, si scambiano video, foto, messaggi vocali, con una semplice connessione ad internet sul proprio telefonino, e tutto ciò ha finito col coinvolgere grandi e piccini, compresi perfino i nonni, che vediamo connessi ad internet per interloquire con i nipoti, più o meno vicini.
Via via, ciò ha interessato anche la sede giudiziale, ove oggi anche un messaggio Whatsapp costituisce prova di quanto sia in esso riportato, sempre che non vi sia disconoscimento espresso, della sua provenienza o del suo contenuto.
È quanto da ultimo affermato anche dal Tribunale di Milano, con la sentenza n. 6935/2021, pubblicata il 10.8.2021, con cui il Giudice ha negato il diritto di un mediatore alla provvigione per la vendita di un immobile, pur pacificamente realizzatasi con l’intervento del mediatore stesso, stante la produzione in giudizio dello scambio di messaggi whatsapp intervenuto fra l’alienante – o meglio il soggetto dallo stesso delegato a trattare ogni aspetto connesso alla vendita – e lo stesso mediatore.
L’alienante, ricevuto un decreto ingiuntivo, notificatogli dal mediatore per ottenere il pagamento di una somma che questi pretendeva dovutagli a titolo di provvigioni per l’attività di mediazione immobiliare svolta, ha proposto opposizione, effettuando produzioni documentali fra le quali vi erano messaggi whatsapp che le parti si erano scambiati, la cui esistenza e veridicità non è stata contestata dal mediatore, che pure ne contestava il merito. Il Giudice ha ritenuto che tali messaggi, non disconosciuti, costituissero valida prova degli accordi presi e che le contestazioni di merito sollevate fossero infondate: ha quindi accolto l’opposizione.
Questa pronuncia si inserisce nel filone giurisprudenziale che ha riconosciuto validità di prova alle conversazioni svoltesi tramite l’utilizzo di cellulari o strumenti informatici – e quindi anche mediante whatsapp – in quanto esse costituiscono vera e propria memorizzazione di un fatto storico, che fornisce prova documentale di tale fatto all’interno del processo. Inizialmente ciò è stato affermato in particolare nel processo penale ( cfr, a titolo di esempio, la sentenza della Cassazione penale, sez. V, n. 1822 del 6/01/2018).
In ambito penale, ci si rifà a quanto previsto dall’articolo 234 c.p.p., dedicato alla prova documentale, che ricomprende ogni scritto o altro documento in grado di rappresentare fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Dunque nell’ambito del processo penale anche le conversazioni contenute nelle chat di whatsapp sono da considerare una forma di memorizzazione di un fatto storico, comparabile ad una prova documentale e, pertanto, utilizzabile ai fini probatori.
La Cassazione (cfr. sentenza Cass Pen, 839 del 20.10.2020, in una vicenda di stalking in cui la vittima era stata oggetto di continui invii di messaggi da parte del marito, che non si rassegnava alla separazione) ha espressamente precisato che i messaggi su Whatsapp e gli sms, conservati nella memoria di un telefono cellulare, hanno natura di documenti, ai sensi dell’art. 234 CPP; la loro acquisizione avviene dunque mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 cpp
In ambito civile, i messaggi Whatsapp sono qualificati documenti informatici, che, ai sensi della l.n.40 del 2008, sono equiparati ai documenti tradizionali, cui si applicano pertanto tutte le norme in materia, presenti nel nostro ordinamento.
In particolare, si richiama l’art. 2712 c.c., che prevede: “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”. L’indicazione “ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose” conduce ad un’interpretazione estensiva della norma, che consente di ricomprendervi praticamente ogni nuova forma, possibile anche in divenire, di rappresentazione dei fatti.
Si richiama altresì l’art. 2719 c.c., che recita testualmente: “Le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”. La disposizione è applicabile a tutte le forme di fotoriproduzione meccanica di documenti scritti, che riproducono graficamente l’atto originale- quali microfilm, fotocopie, eliografie, copie fotografiche, oggi anche su supporto digitale- che sono equiparate ad una vera e propria fotocopia, considerata prova, sempre a condizione che non venga espressamente contestata dalla controparte.
Anzi, la giurisprudenza ha precisato che la contestazione non può essere solo generica, ma deve essere accompagnata da fondate motivazioni che la giustifichino. Come precisato di recente dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 12794 del13.5.2021), in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche, di cui in particolare all’art. 2712 cc, il disconoscimento, idoneo a far perdere la qualità di prova a siffatte riproduzioni, degradandole a presunzioni semplici, deve essere non solo tempestivo, soggiacendo a precise preclusioni processuali, ma anche chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e la realtà riprodotta.
Qualora intenda contestare l’autenticità del messaggio prodotto, la parte avversa potrà chiedere al giudice di disporre una consulenza tecnica d’ufficio; il giudice deve allora provvedere alla nomina di un perito, cui dovrà essere consegnato il dispositivo telefonico. Il CTU esaminerà il dispositivo che gli sarà stato consegnato e provvederà a riportare il testo da lui visionato su un documento cartaceo ufficiale, che diventa vera e propria prova all’interno del processo.
Un messaggio Whatsapp può entrare nel processo come prova documentale quando venga depositato lo screenshot proveniente dal display del cellulare; ottenuto lo screenshot, il file contenente la conversazione può essere stampato, o, in alternativa, allegato mediante l’utilizzo di una penna usb da depositare nel fascicolo della parte che intende utilizzarlo. Il messaggio può entrare anche tramite prova testimoniale, fornita dal soggetto cui si sia fatto leggere il contenuto dei messaggi. Come noto, la testimonianza è però ammissibile quando provenga da un testimone diretto, cioè che abbia letto il contenuto dei messaggi in prima persona, mentre non sono ammesse testimonianze indirette, che riportino quanto appreso da altri soggetti.
Il messaggio può fare ingresso all’interno del processo, e quindi assumere valore di prova, anche mediante la diretta acquisizione del cellulare all’interno del processo medesimo. In questo caso, l’utilizzabilità della prova è condizionata dall’acquisizione del cellulare contenente il messaggio; la sua trascrizione andrà a svolgere una funzione meramente riproduttiva del contenuto della prova documentale (cfr. Cass. pen. sez. II, n. 50986 del 06/10/2016; Cass. pen. sez. V, n. 4287 del 29/09/2015). E’ stato chiarito, sempre con più specifico riferimento al processo penale, che il cellulare deve essere consegnato agli inquirenti, affinchè questi possano effettuare tutte le opportune verifiche, tanto che, senza il dispositivo che contiene i dati originali, la trascrizione della copia fotografica o anche del materiale non ha valore.
Anche una recente pronuncia del Giudice di Pace di Latina conferma l’utilizzabilità di whatsapp come prova (cfr. decreto n. 2399 del 25.06.2021), essendo da ritenersi prova scritta dell’esistenza di un credito, per cui venga richiesta l’emissione di decreto ingiuntivo, ex art. 633 e ss. c.p.c , la stampa di messaggi whatsapp. La pronuncia risulta interessante per il richiamo di precedenti, in materia di SMS, della Suprema Corte (cfr., fra i tanti, Cassazione, Sez. I, n. 19155 del 17.07.2019), ove si precisa che whatsapp si serve, per funzionare, dell’utenza telefonica di mittente e destinatario; pertanto, i relativi messaggi, così come gli SMS, sono da considerarsi alla stregua di qualunque altra prova documentale, in quanto rientrano nelle riproduzioni informatiche e rappresentazioni meccaniche ai sensi dell’a. 2712 c.c.
Anche per il Consiglio Nazionale Forense (cfr. sentenza 28/2021) non viola alcuna disposizione deontologica l’Avvocato che, nominato difensore d’ufficio, informi, tramite diversi sms. il proprio assistito, sottoposto a procedimento penale, invitandolo a prendere rapidamente contatti con lui, per evitare di andare incontro alle preclusioni tipiche del processo penale. Nel caso esaminato, un avvocato, che si era visto applicare la sanzione della censura, per pretesa violazione dell’art. 9, in relazione all’art. 35 c.11 del codice disciplinare, in quanto era stato valutato che , nominato difensore d’ufficio, facendo insistente uso del telefono cellulare, avesse violato i doveri di esercitare l’attività professionale con dignità, probità e decoro, il cui rispetto si impone anche nelle forme e modalità delle informazioni, aveva impugnato la decisione del proprio Consiglio distrettuale ed ha visto accogliere la sua impugnazione dal CNF. Il CNF ha infatti chiarito che in effetti “l’uso della messaggistica, che consente una comunicazione più immediata e veloce, non può ritenersi in sé in violazione dell’art. 9 del NCDF poiché, per molti aspetti, ormai rappresenta un vero e proprio metodo di comunicazione, avente valore legale, che per di più, fornisce anche una valida prova nel processo”, come confermato anche dalla Cassazione, sentenza n. 49016/2017 per la quale gli sms non sono che la memorizzazione di fatti storici e quindi devono considerarsi alla stregua della prova documentale. [Nel caso, il CNF ha ritenuto si trattasse peraltro di un mero scambio di messaggi dal contenuto informativo, tra avvocato e interlocutrice, numericamente contenuti e quindi incapaci di recare molestia alcuna].
Di diverso avviso, deve citarsi però anche una recente pronuncia della Commissione Tributaria di Reggio Emilia, che, con la sentenza n. 105/2021, ha sancito l’inutilizzabilità dei messaggi whatsapp nel giudizio tributario, perché, a differenza degli sms, essi non vengono archiviati tramite memorizzazione dalle società telefoniche. Essendo i messaggi whatsapp archiviati solo sul singolo dispositivo, di essi non resta altra traccia, in quanto non vengono acquisiti su un supporto informatico o figurativo contenente la loro registrazione, utile per verificarne l’affidabilità, la provenienza, l’attendibilità del contenuto delle conversazioni. Proprio perché di essi non è lasciata traccia, non sarebbero utilizzabili in sede contenziosa.