Cass. Civ., sez. I, 31 dicembre 2013, n. 28812

Home 9 Contenuti extra 9 Adolfo Tencati - Beni e servizi realizzati dall’appaltatore 9 Cass. Civ., sez. I, 31 dicembre 2013, n. 28812
Share

Cass. Civ., sez. I, 31 dicembre 2013, n. 28812

[Omissis].

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – L’Enel S.p.a. convenne in giudizio la Ferrocemento S.p.a., in proprio ed in qualità di capogruppo dell’associazione temporanea d’imprese costituita con la Sitac S.p.a. e l’Impresa Lietta Pierino S.r.l., nonché queste ultime due società, chiedendo l’accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto di appalto stipulato il 5 ottobre 1992 per inadempimento delle convenute e la condanna delle stesse al risarcimento dei danni.

Premesso che l’appalto aveva ad oggetto l’esecuzione delle opere civili connesse alla realizzazione di un impianto idroelettrico, ed in particolare lo scavo di una galleria di derivazione, l’attrice espose di essersi avvalsa della risoluzione di diritto con lettera del 29 marzo 1995, in quanto le imprese appaltatrici avevano più volte sospeso illegittimamente i lavori, a seguito di frane dell’ammasso roccioso che ave in vano determinato il blocco della macchina perforatrice, lamentando l’erroneità delle informazioni risultanti dalla relazione geologica predisposta dalla committente per la gara, e proponendo una maggiorazione del corrispettivo o l’adozione di un metodo di scavo più lento e costoso.

1.1. – Si costituirono la Sitac e la Ferrocemento, quest’ultima opponendo l’infondatezza della domanda e chiedendo, in via riconvenzionale, la pronunzia della risoluzione del contratto per inadempimento della committente o, in subordine, per eccessiva onerosità sopravvenuta, nonché la condanna dell’Enel al pagamento delle somme di cui alle riserve formulate durante l’esecuzione del contratto.

Nel corso del giudizio, spiegò intervento l’Enel Produzione S.p.a., succeduta all’Enel in qualità di cessionaria del ramo di azienda.

1.2. – Con sentenza del 25 gennaio 2001, il Tribunale di Verbania accolse parzialmente la domanda principale, dichiarando la risoluzione di diritto del contratto per inadempimento delle convenute, ma rigettando la domanda di risarcimento dei danni e le domande riconvenzionali.

2. – Sull’impugnazione proposta dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua, succeduta a sua volta alla Ferrocemento in qualità di cessionaria del ramo di azienda, la Corte d’Appello di Torino, con sentenza non definitiva dell’8 ottobre 2003, ha confermato la risoluzione per inadempimento delle convenute, rigettando anche l’appello incidentale proposto dalle committenti in ordine al risarcimento dei danni.

2.1. -A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto irrilevante l’eventuale erroneità delle informazioni risultanti dalla relazione geologica, la quale attiene alla fase precontrattuale, non costituendo un elemento del progetto, ma un documento che reca semplici informazioni indicative o di massima, in quanto le indagini geologiche ricadono nella fase di attuazione del progetto, e devono essere effettuate dall’appaltatore prima di procedere alle opere di scavo. Ha escluso inoltre che l’Enel avesse fornito indicazioni in ordine alla fresa da utilizzare per lo scavo, osservando che il contratto rimetteva la definizione delle modalità esecutive alla disponibilità ed alla responsabilità dell’appaltatore, il quale avrebbe dovuto basarsi sugli elementi che l’esperienza e la buona tecnica impongono di vagliare.

Ha infine ritenuto arbitraria la pretesa di maggiori compensi avanzata dalla Ferrocemento, in quanto quest’ultima aveva l’obbligo di proseguire i lavori, adottando gli accorgimenti idonei a superare la difficoltà insorte, e formulando riserve per i maggiori oneri sopportati. Ha osservato al riguardo che, come riferito dal c.t.u., l’appaltatrice non aveva provveduto al consolidamento del fronte il cui cedimento aveva determinato il blocco della fresa né ad adottare i predetti accorgimenti o ad utilizzare le attrezzature di cui la fresa era dotata, con la conseguenza che l’arresto dei lavori risultava ingiustificato.

La Corte ha poi rigettato la domanda di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, osservando che tale possibilità, oltre ad essere esclusa dal capitolato generale, non è prevista dall’art. 1664 c.c., il quale detta una disciplina speciale per il caso in cui insorgano imprevedibili difficoltà di ordine geologico, attribuendo all’appaltatore il diritto ad un equo compenso, e rendendo pertanto inapplicabile l’art. 1467 c.c..

Quanto alla domanda di risarcimento dei danni avanzata dall’Enel, la Corte ha ritenuto inammissibile la produzione dei nuovi documenti depositati a sostegno dell’appello incidentale, non essendone stata allegata l’indispensabilità ai fini della decisione e l’impossibilità della previa produzione; premesso inoltre che i maggiori costi delle opere non realizzate costituivano un danno non ancora attuale, che per gl’interessi passivi sugli investimenti produttivi non erano stati forniti i necessari chiarimenti in ordine ai dati contabili offerti in primo grado, e che le maggiori spese di gestione e riappalto non erano state sufficientemente documentate, ha escluso anche la sussistenza dei presupposti per una liquidazione equitativa.

2.2. – Con sentenza definitiva del 10 novembre 2005, la Corte ha poi ha accolto parzialmente la domanda di pagamento delle somme indicate nelle riserve, condannando l’Enel e l’Enel Produzione al pagamento della somma di euro 21.992,34, oltre interessi legali.

Premesso che la risoluzione non preclude il riconoscimento di maggiori compensi per i lavori eseguiti ed i costi sopportati, la Corte ha ritenuto che il mancato riconoscimento dell’inadempimento dell’Enel impedisse di valutare le riserve nn. 3 ed 11, riguardanti gli oneri sostenuti dalle imprese per la sospensione dei lavori ed il lucro cessante. Rilevato che le altre riserve erano state formulate nel rispetto del procedimento previsto dal capitolato generale, ha ritenuto fondate le riserve nn. 12, 13, 14 e 15, parzialmente fondate quelle nn. 5, 10 e 17, ed infondate quelle nn. 1, 2, 4, 6, 7, 8, 9 e 16; in particolare, per la riserva n. 1, relativa a maggiore utilizzo di materiale per riempire cavità causate da franamenti dipendenti dalla scadente qualità del materiale roccioso, ha osservato che non erano stati documentati sfornellamenti di carattere eccezionale, aggiungendo che la massa rocciosa era di qualità inferiore a quella presa a riferimento anche per il compenso forfettario, mentre per la riserva n. 8, riflettente gli oneri derivanti dall’impossibilità di utilizzare la strada di accesso al cantiere, occupata da altra impresa, ha rilevato la mancanza di qualsiasi documentazione che escludesse l’utilizzazione contemporanea dell’area di cantiere da parte di più ditte.

3. -Avverso le predette sentenze propone ricorso per cassazione la Società Italiana per Condotte d’Acqua, per otto motivi, illustrati anche con memoria. Resiste con controricorso l’Enel Produzione, in proprio ed in qualità di rappresentante dell’Enel, proponendo a sua volta ricorso incidentale, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria, al quale la Società Italiana per Condotte d’Acqua resiste con controricorso. La Sitac e l’Impresa Lietta Pierino non hanno svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso principale, sollevata dall’Enel Produzione in riferimento alla carente enunciazione dei motivi d’impugnazione ed alla mancata formulazione dei relativi quesiti di diritto.

Il ricorso ha infatti ad oggetto due sentenze depositate rispettivamente l’8 ottobre 2003 ed il 10 novembre 2005, e pertanto, ai sensi del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2, ad esso non si applica l’art. 366-bis c.p.c., introdotto dall’art. 6 del medesimo decreto, il quale si riferisce esclusivamente all’impugnazione delle sentenze pubblicate dalla data del 2 marzo 2006.

Ferme restando, inoltre, le carenze che saranno specificamente individuate in riferimento alle singole censure, l’esposizione dei motivi risulta nel complesso più che adeguata, recando una puntuale indicazione delle statuizioni sottoposte al vaglio di questa Corte e delle norme di legge di cui si lamenta la violazione, nonché dei vizi logico-giuridici addebitati alla sentenza impugnata, sì da consentire una pronta identificazione delle ragioni per cui la ricorrente ne chiede la cassazione. Possono ritenersi pertanto soddisfatti i requisiti di specificità, completezza e pertinenza dei motivi, prescritti dall’art. 366 c.p.c. in ossequio alla natura propria del ricorso per cassazione, quale mezzo d’impugnazione a critica vincolata, la quale esige innanzitutto che dalla lettura del ricorso possa desumersi con chiarezza il devolutum della controversia sulla base dei vizi denunciati, la cui riconducibilità alle categorie individuate dall’art. 360 c.p.c. segna i limiti di ammissibilità del gravame (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 3, 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., Sez. 1, 17 luglio 2007, n. 15952; 25 febbraio 2004, n. 3741).

2. – Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione del D.M. 29 maggio 1895, art. 15, comma 2, e del D.P.R. 1 novembre 1959, n. 1363, art. 2, comma 1, lett. b), nonché il vizio di motivazione per mancata applicazione delle norme A.3, commi 1 e 2, ed F del D.M. 21 gennaio 1981, e delle norme A.3, commi 1 e 2, del D.M. 11 marzo 1988, sostenendo che la sentenza impugnata ha posto a carico dell’appaltatore compiti, doveri e responsabilità del progettista, non avendo considerato che, ai sensi di tali disposizioni, la relazione geologica costituisce parte integrante degli atti progettuali, e le relative indagini devono essere eseguite preventivamente a cura del committente, ai fini della predisposizione di un corretto progetto esecutivo.

3. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1363, 1368, 1370 e 1371 c.c., affermando che la Corte d’Appello ha erroneamente desunto l’obbligo delle imprese di procedere alle indagini geologiche dalla clausola del capitolato generale che impone all’appaltatore il rispetto delle prescrizioni in materia di progettazione dei lavori, trascurando che, ai sensi del medesimo capitolato, la progettazione era a carico dell’Enel, e che il predetto obbligo non era previsto da nessuna delle disposizioni del capitolato, il quale non contemplava neppure compensi per tale onerosa attività.

4. – Le predette censure devono essere esaminate congiuntamente, in quanto riflettenti la comune problematica relativa alla configurabilità a carico delle imprese appaltatrici dell’obbligo di procedere preventivamente ad indagini geologiche per l’accertamento delle caratteristiche del terreno interessato dai lavori di scavo.

In tema di appalto, sia pubblico che privato, questa Corte ha affermato che, poiché il risultato promesso dipende non solo dall’esecuzione dell’opera, ma anche dalla sua corretta progettazione, tra gli obblighi di diligenza dell’appaltatore rientra, in mancanza di una diversa previsione contrattuale, il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, anche in relazione alle caratteristiche del suolo su cui l’opera deve sorgere. Si è infatti osservato che la verifica della natura e della consistenza del suolo implica un’attività conoscitiva da svolgersi con particolari mezzi tecnici, e quindi conforme agli obblighi assunti dall’appaltatore, il quale, essendo tenuto a mettere a disposizione la propria organizzazione ed a tenere il comportamento diligente dovuto per la realizzazione dell’opera commissionatagli, ha l’obbligo di adottare tutte le misure e le cautele necessarie e adeguate per l’esecuzione della prestazione secondo il modello di precisione e di abilità tecnica idoneo in concreto a soddisfare l’interesse del committente. In tal senso depone anche l’art. 1664 c.c., comma 2 il quale dev’essere interpretato in conformità con il principio generale enunciato sia dall’art. 1467, comma 2, sia dal comma 1 del cit. art. 1664, secondo cui le parti, nei contratti a prestazioni corrispettive, assumono il rischio di eventuali alterazioni del valore economico delle rispettive prestazioni entro limiti rientranti nella normale alea negoziale, che ciascun contraente deve conoscere al momento della stipula: nel contratto di appalto, obbligandosi l’appaltatore al compimento dell’opera con gestione a proprio rischio, rientrano nell’ambito di detta alea anche le difficoltà di natura geologica alle quali non possa attribuirsi carattere d’imprevedibilità in relazione alla natura dell’attività esercitata ed alla diligenza richiesta, e delle quali deve quindi ritenersi che si sia tenuto conto nella formazione del sinallagma.

L’esecuzione a regola d’arte di una costruzione dipende infatti anche dall’adeguatezza del progetto rispetto alle caratteristiche geologiche del terreno, sicché la relativa indagine, nell’ipotesi in cui non presenti particolari difficoltà, superiori alle conoscenze che devono essere assicurate dall’organizzazione necessaria allo svolgimento dell’attività costruttiva, non può che far carico all’appaltatore. Si è pertanto ritenuto che la scoperta in corso d’opera di peculiarità geologiche del terreno tali da impedire l’esecuzione dei lavori o da richiedere modalità di esecuzione diverse e più gravose non possa essere invocata dall’appaltatore per esimersi dall’obbligo di accertare le caratteristiche idrogeologiche del suolo (o sottosuolo, come nella specie) sul quale l’opera deve essere realizzata e per pretendere dilazioni od indennizzi, potendo la sua responsabilità essere esclusa solo se le condizioni geologiche non siano accertabili con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali (cfr. Cass., Sez. 1, 18 febbraio 2008, n. 3932; Cass., Sez. 3, 31 maggio 2006, n. 12995; Cass., Sez. 2, 18 aprile 2002, n. 5632).

4.1. – Tale responsabilità viene contestata, nella specie, attraverso il richiamo delle disposizioni che, in materia di lavori pubblici e segnatamente con riferimento alla costruzione di dighe, includono tra gli atti progettuali la relazione geologica, in tal modo ponendo a carico della parte che provvede alla predisposizione del progetto l’obbligo di compiere le indagini geologiche all’uopo necessarie. Tra le norme indicate dalla ricorrente, le uniche sicuramente applicabili alla fattispecie in esame risultano peraltro quelle del D.M. 11 marzo 1988, in quanto contenute in un testo normativo recante norme tecniche riguardanti, tra l’altro, le indagini sui terreni e sulle rocce, nonché i criteri generali e le prescrizioni per la progettazione, l’esecuzione e il collaudo di manufatti sotterranei, e vigente all’epoca della stipulazione del contratto; tali disposizioni hanno infatti sostituito le precedenti norme tecniche dettate dal D.P.R. 21 gennaio 1981, e devono considerarsi prevalenti, per il loro carattere speciale, su quelle del D.M. 29 maggio 1895, genericamente riguardanti lavori di acque e strade, mentre non vi è alcuna certezza in ordine all’effettiva riconducibilità dell’appalto in esame all’ambito applicativo del D.P.R. n. 1363 del 1959, non essendo stata fornita alcuna indicazione in ordine alle caratteristiche specifiche dell’opera commissionata.

I punti A.3, comma 2, F.2, comma 3, ed F.3, comma 1, del D.M. 11 marzo 1988, nel prescrivere che, per i progetti relativi a gallerie e manufatti sotterranei, i risultati delle indagini geologiche siano esaurientemente esposti e commentati in una relazione, nella quale devono essere specificati ed adeguatamente giustificati la scelta dell’ubicazione e del tracciato dell’opera e la previsione dei metodi di scavo, precisano espressamente che la stessa costituisce parte integrante degli atti progettuali: tali disposizioni smentiscono pertanto l’affermazione della Corte di merito, secondo cui la relazione geologica della quale le imprese avevano denunciato l’inadeguatezza non costituiva un elemento del progetto, ma un documento contenente semplici informazioni indicative e di massima.

L’inesattezza di tale rilievo non consente tuttavia di concludere, conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente, per l’estraneità delle indagini geologiche all’ambito degli obblighi posti a carico delle appaltatrici, avuto riguardo al disposto del punto A.2, comma 7, delle medesime norme tecniche, il quale, prescrivendo espressamente il controllo in corso d’opera della rispondenza tra la caratterizzazione geotecnica assunta in progetto e la situazione effettiva, ed il conseguente differimento del progetto esecutivo, impone all’appaltatore l’obbligo di verificare in sede esecutiva la correttezza delle informazioni risultanti dalla relazione geologica, segnalando eventuali inesattezze o difformità al committente, al fine di promuovere le modifiche del progetto che si rendano necessarie per la buona riuscita dell’opera. Tale conclusione trova conforto nel punto B.2, il quale, nel definire il livello di approfondimento delle indagini geotecniche in rapporto a ciascuna delle fasi in cui si articola la progettazione, prevede espressamente che esse possono costituire oggetto di ulteriori sviluppi in relazione alle esigenze della fase costruttiva, nel corso della quale deve procedersi anche al controllo della validità delle ipotesi di progetto, anche mediante la valutazione dei dati ottenuti con misure ed osservazioni compiute nel corso dei lavori, ai fini dell’eventuale adeguamento dell’opera alle situazioni riscontrate.

4.2. – Alla stregua di tali disposizioni, non possono condividersi neppure le critiche mosse all’interpretazione dell’art. 1.2 del capitolato generale fornita dalla sentenza impugnata.

La riserva all’Enel della progettazione dell’opera, comprensiva delle indagini geologiche, non escludendo l’obbligo delle imprese di provvedere all’approfondimento delle stesse in fase esecutiva, non consente infatti di ritenere incompatibile con un’interpretazione complessiva del programma negoziale la deduzione del predetto obbligo dal richiamo, contenuto nella clausola in esame, all’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari ed alle prescrizioni delle competenti autorità in materia di progettazione dei lavori. La mancata previsione di maggiori compensi per tale attività, che implicava la predisposizione di una complessa organizzazione e la conseguente sopportazione di gravosi oneri economici, deve ritenersi poi connaturata al particolare settore di attività delle appaltatrici, richiedente nei soggetti che vi operano la disponibilità di sofisticate strumentazioni e di personale avente specifiche competenze tecniche, non procurati in vista del singolo appalto, con la conseguente riconducibilità dei relativi oneri ai costi generali dell’impresa, la cui remunerazione è compresa nel corrispettivo dell’opera. In quest’ottica, non può dunque giovare alla ricorrente né il richiamo alle pratiche generali interpretative né quello all’interpretatio contra stipulatorem, la cui applicabilità presuppone una persistente incertezza in ordine all’identificazione della volontà complessiva delle parti, non configurabile allorché, come nella specie, quest’ultima risulti determinata o determinabile, senza margini di dubbio, mediante l’adozione di prioritari criteri legali di ermeneutica, come quelli dell’interpretazione letterale e sistematica (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 30 aprile 2012, n. 6601; Cass., Sez. 3, 30 maggio 2007, n. 12721; 9 giugno 2005, n. 12120).

4.3. – Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur escludendo che la relazione geologica costituisse parte integrante del progetto dell’opera commissionata, ha ritenuto che eventuali inesattezze o imprecisioni della stessa non fossero sufficienti ad esonerare le imprese appaltatrici dalla responsabilità per l’arresto dei lavori, in considerazione dell’obbligo, ad esse incombente, di procedere agli approfondimenti richiesti dalle difficoltà insorte nel corso dell’esecuzione.

5. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver trascurato, nella valutazione della condotta delle parti, il dovere di correttezza, lealtà, diligenza e buona fede ed i doveri di cooperazione e solidarietà, che imponevano alla committente di tenere, indipendentemente da specifici obblighi contrattuali, un comportamento idoneo a preservare gl’interessi delle appaltatrici. In particolare, la Corte d’Appello ha omesso di confrontare la condotta dell’Enel con quella tenuta nell’ambito dell’appalto stipulato a seguito della risoluzione d’ufficio, non avendo considerato che poco dopo l’aggiudicazione dei lavori era stato stipulato un atto aggiuntivo, con cui la committente aveva consentito l’utilizzazione di una fresa scudata, in luogo di quella aperta prevista dal contratto originario.

6. – Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., osservando che la Corte territoriale ha immotivatamente disatteso l’istanza, da essa riproposta anche all’udienza di precisazione delle conclusioni, di esibizione della documentazione relativa al nuovo appalto, la cui acquisizione avrebbe consentito di verificare la violazione del dovere di cooperazione da parte della committente.

7. – Le predette censure, anch’esse da esaminarsi congiuntamente in quanto attinenti alla valutazione del comportamento tenuto dalle parti nell’esecuzione del contratto, non meritano accoglimento.

A fondamento della responsabilità delle appaltatrici, la Corte di merito ha posto, oltre al mancato approfondimento delle indagini geologiche necessarie per l’esecuzione dei lavori di scavo, la scelta di uno strumento inadatto alle caratteristiche del terreno da perforare, escludendo che il tipo di fresa da utilizzare fosse indicato dal contratto, il quale rimetteva alle imprese la definizione di ogni aspetto inerente alle modalità esecutive. La Corte ha inoltre richiamato la relazione del c.t.u., secondo cui, pur essendo previsti nel contratto l’impiego di attrezzature per il superamento delle zone difficili ed il compenso per eventuali operazioni di consolidamento, le imprese non avevano utilizzato neppure gli accorgimenti tecnici di cui era dotata la fresa impiegata e non avevano provveduto al preventivo consolidamento del fronte.

Nel contestare tali affermazioni, la ricorrente si è limitata a ribadire l’inadeguatezza delle soluzioni tecniche adottate per lo scavo, ed in particolare l’inidoneità del tipo di fresa utilizzato, insistendo sul collegamento della relativa scelta con le risultanze asseritamente errate della relazione geologica e sostenendo di aver vanamente proposto l’impiego di un diverso tipo di fresa, ma astenendosi dall’indicare sia la clausola contrattuale che imponeva l’uso di quel determinato strumento di scavo, sia gli atti o i documenti eventualmente prodotti in giudizio a riprova delle proposte avanzate e del rigetto delle stesse da parte della committente.

In assenza di tali elementi, non appare censurabile l’affermazione della responsabilità delle imprese appaltatrici per l’arresto dei lavori, trovando applicazione il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di appalto, secondo cui l’obbligo dell’appaltatore di eseguire l’opera a regola d’arte, osservando la diligenza qualificata prescritta dall’art. 1176 c.c., comma 2, non viene meno neppure nel caso in cui egli si attenga ad un progetto predisposto dal committente ed alle indicazioni da quest’ultimo fornite in ordine alla sua realizzazione: poiché, infatti, la prestazione dovuta implica anche il controllo e la correzione delle eventuali deficienze del progetto, l’appaltatore può essere ritenuto responsabile anche se, nell’eseguire fedelmente il progetto e le indicazioni ricevute, non ne segnala eventuali carenze o errori, mentre va esente da responsabilità soltanto se il committente, reso edotto di tali difetti, gli chieda di dare egualmente esecuzione al progetto o ribadisca le indicazioni, in tal caso riducendosi il ruolo dell’appaltatore a quello di nudus minister, cioè di passivo strumento nelle mani del primo, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 21 maggio 2012, n. 8016; 13 febbraio 2009, n. 3659; Cass. Sez. III, 31 maggio 2006, n. 12995).

7.1. – In tale contesto, nessun rilievo può assumere il diverso comportamento asseritamente tenuto dall’Enel nell’ambito del rapporto instaurato con altro soggetto ai fini della prosecuzione dell’opera a seguito della risoluzione del contratto in esame.

Indipendentemente dalla considerazione che la conferma dell’utilizzazione del tipo di fresa previsto dal primo contratto contraddice l’assunto della ricorrente, secondo cui la committente si sarebbe avvalsa per il nuovo appalto dei risultati delle indagini geologiche condotte nel corso di quello precedente, si osserva che il consenso eventualmente prestato dall’Enel, nel corso dell’esecuzione dei lavori, all’impiego da parte del nuovo appaltatore di strumenti di scavo diversi da quelli originariamente previsti dal contratto, non potrebbe risultare di per sé significativo ai fini della dimostrazione di una più ampia disponibilità a cooperare per la buona riuscita dell’opera, ben potendo tale atteggiamento essere stato determinato da una diversa condotta dello stesso appaltatore.

Incensurabile in sede di legittimità appare poi il mancato accoglimento dell’istanza di esibizione dell’intera documentazione relativa al secondo appalto, trattandosi di un mezzo istruttorio avente carattere residuale, al quale può farsi ricorso soltanto quando la prova dei fatti dedotti non sia acquisibile aliunde, e non utilizzabile per finalità meramente esplorative, ravvisabili ogni qualvolta a sostegno dell’iniziativa siano state fornite generiche indicazioni in ordine agli elementi di prova desumibili dalla documentazione richiesta (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 6, 16 novembre 2010, n. 23120; Cass., Sez. 2, 29 ottobre 2010, n. 22196;Cass., Sez. lav., 23 febbraio 2010, n. 4375).

8. – Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, in via subordinata, l’errata applicazione degli artt. 1467 e 1664 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, senza considerare che essa ricorrente aveva invocato proprio l’art. 1664, il quale trova applicazione ogni qualvolta l’esecuzione dell’opera, così come progettata ed appaltata, risulti tale, per cause geologiche e simili, da rendere notevolmente più onerosa la situazione dell’appaltatore. Nella specie, d’altronde, tale onerosità non era dovuta alla sorpresa geologica, ma a gravi errori di progettazione, dei quali era tenuta a rispondere la committente, che aveva predisposto il progetto.

8.1. – Nella parte in cui insiste per l’applicabilità dell’art. 1664 c.c., la censura è infondata, avendo la Corte di merito correttamente osservato, conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che tale disposizione, avente carattere speciale rispetto all’art. 1467 c.c., e quindi idonea ad escluderne l’applicabilità nelle fattispecie da essa contemplate, non prevede la risoluzione del contratto, ma solo la revisione dei prezzi o, nel caso di cui al comma 2, il diritto dell’appaltatore ad un equo compenso (cfr. Cass., Sez. 1, 3 novembre 1994, n. 9060; 5 febbraio 1987, n. 1123).

Nella parte in cui invoca l’applicazione dell’art. 1467 cit., sostenendo di aver inteso porre a fondamento della domanda di risoluzione circostanze diverse da quelle contemplate dall’art. 1664, la censura è invece inammissibile, ponendosi da un lato in contrasto con quanto precedentemente affermato, e concernendo dall’altro l’interpretazione della domanda, la quale implica un accertamento di fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito, e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 17 febbraio 2011, n. 3920; Cass., Sez. 3, 26 giugno 2007, n. 14751; Cass., Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947).

9. – È poi infondato il sesto motivo, con cui la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare in ordine alla censura da essa formulata avverso la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva addebitato all’associazione temporanea d’imprese il mancato esercizio del diritto di recesso previsto dal capitolato generale per l’ipotesi di gravi difficoltà di ordine geologico, senza considerare che, nonostante ripetute sollecitazioni, la committente non aveva mai inteso procedere all’accertamento in contraddittorio delle difficoltà insorte, che costituisce il presupposto per l’esercizio della predetta facoltà.

9.1. – La mancanza di una specifica statuizione in ordine al motivo di appello, espressamente menzionato nella narrativa della sentenza impugnata, non consente infatti di ritenere omessa qualsiasi valutazione in ordine alla mancata attivazione dei rimedi che il contratto accordava alle appaltatrici per far fronte a difficoltà eventualmente insorte nel corso dei lavori, avendo la Corte condiviso, in proposito, le indicazioni emergenti dalla sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto che le appaltatrici fossero tenute a proseguire i lavori, formulando eventuali riserve per i maggiori oneri incontrati, ed avendo ritenuto invece arbitraria la pretesa delle appaltatrici di concordare anticipatamente un maggior compenso. L’attribuzione alle appaltatrici della responsabilità per l’arresto dei lavori, postulando l’esistenza di difficoltà superabili con l’impiego della diligenza richiesta dalla natura dell’attività svolta, risultava d’altronde incompatibile, sul piano logico, con il riconoscimento del carattere straordinario ed imprevedibile delle predette difficoltà, che costituiva il presupposto per l’esercizio del diritto di recesso, rendendo pertanto superfluo l’accertamento dell’osservanza della procedura a tal fine prescritta.

Non può quindi ravvisarsi nella specie un vizio di omessa pronuncia, per la cui configurabilità non è sufficiente la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che risulti completamente omesso il provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non accade quando, come nel caso in esame, la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto ogni qualvolta la pretesa avanzata con il capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr. Cass., Sez. 2, 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass., Sez. 1, 10 maggio 2007, n. 10696).

10. – È altresì infondato il settimo motivo, con cui la ricorrente denuncia ancora la violazione dell’art. 112 c.p.c., assumendo che, nonostante il rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta dall’Enel, la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda di restituzione della cauzione versata da essa ricorrente nel corso del giudizio di primo grado.

10.1. – Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la predetta domanda non può considerarsi implicita in quella di risoluzione del contratto di appalto per colpa della committente o per eccessiva onerosità sopravvenuta, proposta in via riconvenzionale con la comparsa di costituzione in primo grado, essendo caratterizzata da un petitum e da una causa petendi diversi, costituiti rispettivamente dall’importo versato e dal rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta dalla committente. Essa non avrebbe pertanto potuto essere proposta nel corso dell’istruttoria espletata in primo grado, configurandosi a tutti gli effetti come domanda nuova, inammissibile ai sensi dell’art. 183 c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis al giudizio in esame, risultante dalle modifiche introdotte dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 17), il quale consente, in sede di trattazione, esclusivamente la modificazione e la precisazione delle domande già formulate. La sua riproposizione con l’atto di appello non permette dunque di ravvisare nella sentenza impugnata un vizio di omessa pronuncia, non essendo quest’ultimo configurabile in relazione a una domanda inammissibile, dal momento che la proposizione della stessa non fa sorgere a carico del giudice adito un potere-dovere di pronunciare (cfr. Cass., Sez. 1, 31 marzo 2010, n. 7951; Cass., Sez. 3, 7 maggio 2009, n. 10489; 20 marzo 2006, n. 6094).

11. – Con l’ottavo motivo, la ricorrente denuncia il vizio di motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto precluso l’esame della riserva n. 3 dalla pronuncia della risoluzione per inadempimento delle appaltatrici, senza considerare che tale riserva si riferiva anche agli oneri connessi alla sospensione dei lavori dovuta al primo blocco della fresa, in occasione della quale la committente, in ottemperanza al dovere di cooperazione, aveva concordato sulla necessità di liberare la fresa mediante la realizzazione di un by-pass, assumendo a suo carico i costi dell’intervento. Sostiene inoltre che, nel dichiarare infondate le riserve nn. 1 ed 8, la Corte d’Appello non ha tenuto conto dell’avvenuta produzione delle fatture attestanti i maggiori oneri sopportati per la rimozione dei materiali franati ed il riempimento delle relative cavità, e non ha considerato che l’accesso di altre ditte al cantiere era previsto dal capitolato esclusivamente per lavori e prestazioni connessi all’installazione ed al montaggio di tubazioni, organi di intercettazione delle acque ed apparecchiature.

11.1. – Le censure sono inammissibili.

Premesso che è rimasta incontestata l’affermazione contenuta nella sentenza definitiva, secondo cui la risoluzione del contratto per inadempimento non preclude il riconoscimento dei maggiori compensi per i lavori eseguiti, si osserva che la questione riguardante l’ascrivibilità alle imprese appaltatrici della responsabilità per la prima sospensione dei lavori e la conseguente sopportazione dei relativi oneri economici, non trattata nella sentenza impugnata, non può trovare ingresso in questa sede, implicando un accertamento di fatto e non essendo stata tempestivamente sollevata nel corso del giudizio di merito, dal momento che, come precisato dalla stessa ricorrente, la necessità di distinguere le conseguenze delle due sospensioni è stata fatta valere soltanto nella comparsa conclusionale depositata in vista della pronuncia della sentenza definitiva (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 3, 3 marzo 2009, n. 5070; Cass., Sez. 1, 1 marzo 2007, n. 4843; 30 novembre 2006, n. 25546).

11.2. – Le altre censure si risolvono invece nella riproposizione di questioni già esaminate dalla sentenza definitiva, mirando a sollecitare un nuovo apprezzamento in ordine al carattere eccezionale dei franamenti che avevano determinato la formazione di cavità per il cui riempimento si era reso necessaria l’utilizzazione di quantitativi di materiale superiori a quelli forfettariamente compensati, nonché in ordine alla possibile utilizzazione della strada di accesso al cantiere da parte di altre imprese: tale valutazione non è tuttavia ammessa in questa sede, non spettando a questa Corte il compito di riesaminare l’intera vicenda processuale, ma solo quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui competono, in via esclusiva, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, il controllo della loro attendibilità e concludenza e la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 5, 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass., Sez. lav., 18 marzo 2011, n. 6288; Cass., Sez. 1, 30 marzo 2007, n. 7072).

12. – Con il primo motivo del ricorso incidentale, l’Enel denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nel dichiarare inammissibile la produzione dei nuovi documenti depositati a sostegno della domanda di risarcimento dei danni da essa avanzata, la Corte territoriale non ha tenuto conto che la predetta disposizione si riferisce esclusivamente alle prove costituende. La sentenza impugnata ha ritenuto non attuale il danno relativo alle opere non realizzate, senza considerare che si trattava di costi già sostenuti e documentati, scaturenti dall’inadempimento accertato in primo grado, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da lucro cessante, trascurando il pregiudizio derivante dalla mancata produzione di energia elettrica nel periodo di sospensione dei lavori, ha omesso qualsiasi indagine in ordine ai maggiori costi del secondo appalto, astenendosi dall’esaminare la documentazione prodotta, ed ha negato gl’interessi passivi sugl’investimenti produttivi, senza considerare che i rilievi sollevati in primo grado erano superati dalla documentazione prodotta in appello.

12.1. – Il motivo è infondato in tutte le sue articolazioni.

L’ammissibilità della documentazione prodotta in appello, anche ai fini della prova degl’interessi passivi corrisposti sugl’investimenti, è stata infatti correttamente esclusa dalla Corte di merito in applicazione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, all’epoca dominante in materia di lavoro ma in seguito prevalso anche in riferimento al rito ordinario, secondo cui il divieto di cui all’art. 345 c.p.c. non è limitato alle prove costituende, ma si estende anche ai documenti, la cui produzione in appello deve dunque ritenersi subordinata, in via alternativa, alla dimostrazione dell’impossibilità di produrli nelle precedenti fasi del giudizio o al convincimento del giudice in ordine all’indispensabilità degli stessi ai fini della decisione, nella specie neppure prospettati dalla controricorrente (cfr. Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8203; Cass., Sez. 3, 26 giugno 2007, n. 14766; Cass., Sez. 5, 19 aprile 2006, n. 9120).

12.2. – Quanto al danno derivante dai maggiori costi sopportati per il riappalto delle opere non realizzate, può invece condividersi l’affermazione della ricorrente, secondo cui la sentenza impugnata non avrebbe potuto negarne il riconoscimento per difetto di attualità al momento della proposizione della domanda, dal momento che l’art. 345 c.p.c., ammettendo il ristoro del pregiudizio patrimoniale correlato ai danni sofferti e non solo ai danni arrecati dopo la sentenza impugnata, consente di chiedere in appello, sempreché dipendenti dal titolo fatto valere in primo grado, il risarcimento non solo dei danni effettivamente venuti ad esistenza, quali eventi fenomenici, dopo la sentenza di primo grado, ma anche di quelli di cui il danneggiato, pur usando l’ordinaria diligenza, non sia stato in grado di rilevare l’esistenza e la portata pregiudizievole anteriormente alla definizione del giudizio di primo grado (cfr. Cass., Sez. 3, 31 marzo 2008, n. 8292; 29 gennaio 2003, n. 1281; 5 aprile 1991, n. 3545).

La stessa ricorrente riconosce peraltro l’insufficienza della documentazione prodotta a fondamento della relativa domanda, sostenendo di essersi offerta di esibire ulteriori documenti nel corso della c.t.u. di cui aveva chiesto l’ammissione, ma omettendo di precisare se gli stessi fossero stati almeno indicati e posti a disposizione della controparte e del giudice, e dichiarando che solo il c.t.u. sarebbe stato in grado di precisare l’entità del danno in questione, sicché, indipendentemente dall’ammissibilità della produzione di tali documenti in appello, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha negato la risarcibilità di tale pregiudizio, escludendo la possibilità di darne una valutazione in termini meramente probabilistici.

12.3 – Inammissibile, e quindi inidonea a far sorgere a carico della Corte di merito il potere-dovere di pronunciare al riguardo, doveva infine considerarsi la domanda di risarcimento del lucro cessante, avendo la stessa ricorrente ammesso di averla avanzata soltanto nella comparsa conclusionale depositata in appello.

13. – L’accertata insufficienza della documentazione prodotta a sostegno della domanda di risarcimento del danno esclude la fondatezza anche del secondo motivo del ricorso incidentale, con cui la controricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha immotivatamente escluso la possibilità di procedere alla liquidazione con metodo equitativo, senza tener conto dell’oggettiva difficoltà di pervenire ad una precisa quantificazione del pregiudizio.

13.1. – L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, previsto dall’art. 1226 c.c., da luogo infatti non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa: esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, in quanto presuppone l’avvenuto adempimento dell’onere della parte di provare la sussistenza e l’entità materiale del danno, e non esonera comunque la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (cfr. Cass., Sez. 3, 12 ottobre 2011, n. 20990; 30 aprile 2010, n. 10607; Cass., Sez. 2, 7 giugno 2007, n. 13288).

14. – È infine inammissibile il terzo motivo, con cui l’Enel denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nonché l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nell’accertare l’avvenuto rispetto del procedimento per la formulazione delle riserve, la Corte d’Appello ha fatto riferimento a documenti dai quali non risulta l’avvenuto adempimento delle formalità prescritte, astenendosi dal fornire analitiche indicazioni in ordine a ciascuna delle riserve ritenute fondate.

14.1. – Nel contestare il valore probatorio attribuito dalla sentenza definitiva ai documenti attestanti la tempestiva formulazione ed esplicitazione delle riserve, la controricorrente sollecita infatti una rivisitazione dell’apprezzamento compiuto dalla Corte di merito, non consentito in questa sede, neppure nel caso in cui attraverso la censura in esame debba intendersi denunciato il travisamento dei fatti, che attiene all’inesatta percezione di circostanze oggettivamente risultanti dagli atti di causa, costituendo tale fattispecie motivo non già di ricorso per cassazione, ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 3 agosto 2007, n. 17057; Cass., Sez. lav., 13 novembre 2006, n. 24166; Cass., Sez. 3, 10 marzo 2006, n. 5251).

15. – I ricorsi vanno pertanto rigettati entrambi, con la conseguente dichiarazione dell’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti, in ragione della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, e dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali.

[Omissis].

Newsletter