MOBBING O STRAINING?

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La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in tema di condotte ostili del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori.

E lo fa con l’ordinanza n. 32020 del 28 ottobre 2022 della sezione lavoro con la quale afferma che qualora non persistano azioni vessatorie si configura lo “straining”, un’ipotesi attenuata del mobbing.

In particolare, sostiene la Corte, quando il datore di lavoro sottopone il lavoratore a condizioni che vengono definite “stressogene” il giudice dovrà valutare se, in base agli elementi dedotti, è possibile parlare di questa forma più tenue di comportamento.

La pronuncia prende le mosse dal seguente caso.

Una lavoratrice, dipendente comunale, ha convocato in giudizio il proprio datore di lavoro sostenendo di aver subito condotte persecutorie oltre che un demansionamento.

La signora ha chiesto che il Comune venisse condannato al risarcimento del danno patrimonale a lei causato- l’indennità di posizione organizzativa di cui avrebbe dovuto godere dalla data di scadenza dell’incarico di cui si tratta- e del danno non patrimoniale patito da liquidarsi in via equitativa.

Il giudice di primo grado rigetta il ricorso. La lavoratrice ricorre in appello, ma ancora una volta la sua domanda viene respinta. Contro quest’ultima sentenza la signora ricorre infine in Cassazione.

Tra i motivi contenuti nel ricorso avanti alla Corte di Cassazione, due rilevano in questa sede.

Il primo: la ricorrente sostiene che il giudice di secondo grado non abbia tenuto in considerazione il suo demansionamento, oltre alle ingiurie subite. Secondo la signora, infatti, sarebbe stato possibile desumere gli elementi costitutivi del mobbing oltre che per testimoni, anche per mezzo di un ragionamento presuntivo, tenuto conto del fatto che con il cambio di dirigenza politica del Comune lei aveva recuperato la sua posizione lavorativa.

La Suprema Corte ha rilevato l’inammissibilità di tale motivo.

Il secondo: la ricorrente afferma che in sede d’appello il giudice, escluso l’intento persecutorio, in base ai fatti dedotti avrebbe dovuto esaminare altre circostanze che avrebbero fatto individuare lo straining.

In merito a ciò la Suprema Corte ha ribadito che lo straining è regolato dall’art.2087 c.c., norma suscettibile di interpretazione estensiva sia per l’importanza del diritto alla salute, sia per i principi di correttezza e buona fede su cui dovrebbe sempre fondarsi il rapporto di lavoro.

Il datore di lavoro deve pertanto astenersi da condotte lesive dei diritti fondamentali dei dipendenti evitando le condizioni di lavoro definite “stressogene” che portano a configurare l’ipotesi di “straining”. La Corte ricorda, altresì che spetta al giudice valutare se, alla luce di quanto dedotto in giudizio, sussista la forma di danno più tenue.

Lo straining infatti è considerato una forma attenuata di mobbing dal quale si differenzia per la mancata continuità delle azioni vessatorie. Esso può essere prospettato solo in sede di appello e solo se, in primo grado, gli stessi fatti sono stati qualificati come mobbing, non essendoci violazione dell’art. 112 c.p.c. poiché entrambi costituiscono comportamenti datoriali ostili diretti ad incidere sul diritto alla salute.

Nel caso di specie la riqualificazione non è stata possibile e pertanto la Corte d’Appello ha rigettato la domanda. Sulla base degli stessi motivi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Dott.ssa Lucia Massarotti

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