LA RINUNCIA NEL DIRITTO CIVILE

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Prof. Pasquale Dui

La rinuncia è un negozio giuridico con causa neutra, che produce effetti tipici immediati, unilaterale, normalmente non recettizio e non revocabile, a forma variabile ed idoneo a tollerare l’apposizione di condizioni.

Dal punto di vista della produzione degli effetti, si distinguono, sul piano generale, fattispecie negoziali ad efficacia attributiva, costitutiva, modificativa ed estintiva.

Ebbene, la dottrina ascrive l’istituto della rinuncia alla categoria delle fattispecie negoziali estintive, inquadrandolo, in particolare, nella categoria dei negozi dispositivi di diritti, in quanto comportante una diminuzione patrimoniale, consistente nella perdita di un diritto soggettivo, da parte del disponente.

Per il vero, ancora si discute se possa parlarsi di rinuncia in termini negoziali, taluno ponendo l’istituto in oggetto in una zona intermedia tra l’atto giuridico in senso stretto ed il negozio giuridico.

In proposito, da parte di costoro, da un lato non si nega che la rinuncia sia un atto di volontà, ma, dall’altro, si evidenzia che gli effetti prodotti da esso sono indipendenti dalla volontà del suo autore (parlandosi, al riguardo, di un istituto giuridico compreso tra le categorie di “atto giuridico qualificato” e di “negozio giuridico minore”).

A questa impostazione si contesta purtuttavia che ogni atto di rinuncia produce un unico effetto diretto, ossia la dismissione di un diritto, mentre altri, eventuali effetti della rinuncia stessa, estranei alla sua causa funzionale, possono piuttosto qualificarsi per, di volta in volta, mediati, indiretti, o riflessi.

Né sembra coerente, a chi tale posizione contrasta, d’altro canto, affermare che, solo perché la rinuncia produce effetti “limitati”, essa non debba assurgere alla dignità di un negozio giuridico.

Ciò posto, l’atto di rinuncia alla titolarità di un diritto, essendo qualcosa di più del semplice abbandono del possesso, richiede, nel soggetto che lo compie, la stessa capacità prescritta per porre in essere atti di disposizione di diritti.

Si tratta, altresì (e dunque, per riprendere il ragionamento) di un negozio giuridico che produce effetti negativi.

Il rinunciante altro non fa, nello svolgerla, che esercitare il suo potere di rinuncia, di regola (salvi alcuni status irrinunciabili) insito nella titolarità di un diritto (in genere).

L’effetto dismissivo della rinuncia è inoltre strettamente e funzionalmente (o causalmente) correlato agli effetti mediati, riflessi, o indiretti, suoi propri.

L’effetto tipico della rinuncia deve valere poi a distinguerla dalla alienazione di un diritto e dalle c.d. rinunce traslative (che, in realtà, vere e proprie rinunce non sono e rispetto alle quali dalla rinuncia non consegue l’estinzione del diritto, che al contrario sopravvive, al di fuori della sfera giuridica del rinunciante).

In questo senso, la rinuncia presenta in comune con l’alienazione di un diritto solo il profilo negativo, ovvero la separazione di un diritto dalla sfera giuridica di un soggetto, ma non anche il profilo positivo, ossia il passaggio del diritto in questione nella sfera giuridica di un altro soggetto.

La volontà del rinunciante si arresta infatti prima dell’effetto dell’acquisto, il quale, lungi dall’essere frutto di un accordo sinallagmatico, è solo un prodotto riflesso della rinuncia, autonomo dalla volontà del rinunciante.

La rinuncia determina così sia l’effetto dismissivo, sia quello estintivo del diritto cui essa è riferita.

LA STRUTTURA DELLA RINUNCIA

In prima approssimazione non è revocabile in dubbio la considerazione che la rinuncia sia essenzialmente unilaterale. Di fronte al potere di rinuncia non vi sono né più parti né destinatari in senso tecnico. L’atto di rinuncia costituisce regolamento di interessi di una sola parte, ovvero del titolare del diritto soggettivo. Ogni altro soggetto fuori dal dichiarante è terzo.

È agevole peraltro escludere dal novero della rinuncia vera e propria le fattispecie nelle quali l’intento dell’autore non è quello di dismettere un diritto essendo diretto altresì ad un fine ulteriore, che si innesta nella causa del negozio, modificandone la natura (esempio, la remissione del debito, che avvantaggia il debitore; la rinuncia onerosa ad una garanzia, che attribuisce un corrispettivo).

L’atto di rinuncia vero e proprio non crea un rapporto giuridico con un terzo, ma una situazione che da sola o in concorso con ulteriori elementi, può dar vita, modificare o estinguere altri diritti e posizioni giuridiche soggettive. Quando questa modifica non è voluta dal disponente ma si verifica autonomamente per altre ragioni saremo nel campo della rinuncia; quando invece la modifica nella sfera giuridica del terzo è voluta e causata direttamente dall’autore del negozio, saremo nell’ambito di un negozio diverso, il quale, in alcuni casi, potrà avere anche struttura bilaterale.

CAUSALITÀ E ASTRATTEZZA NELLA RINUNCIA

Secondo alcuni autori, lo schema negoziale della rinuncia possiede il carattere della astrattezza, non sottendendo esso un fenomeno di attribuzione patrimoniale.

Tale carattere dovrebbe ritenersi in particolare giustificato dal fatto che la rinuncia può avere le finalità più diverse.

Contro questa ricostruzione, peraltro, sono state mosse puntute obiezioni.

Innanzitutto, occorre considerare che il codice civile si fonda sul principio di causalità.

Nel nostro ordinamento i negozi astratti sono solo quelli dei titoli di credito all’ordine o al portatore, per i quali opera, in via generale, il divieto per il debitore di opporre al terzo possessore le eccezioni personali, tra cui quelle ex causa.

D’altro canto, si fa notare, da parte degli avversatori di detta opinione, che la tesi della astrattezza non considera che, in alcuni casi, giusto come per la rinuncia, la causa, nel nostro ordinamento, deve essere ricercata al di fuori del negozio giuridico in questione (fideiussione, cessione del credito).

Anche la rinuncia a un diritto rientra pertanto in una serie di situazioni nelle quali lo spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un negozio che contenga in sé la sua causa, la quale, conseguentemente, deve essere ricercata al di fuori dello stesso negozio, mediante la valorizzazione degli elementi soggettivi (scopo) ed oggettivi (funzione) propri dell’atto di abdicazione in discorso.

In questi termini, la rinuncia, lungi dall’essere un negozio astratto, è dunque un negozio a causa indeterminata, il cui scopo concreto necessita di essere individuato per relationem, mediante il riferimento ad una fonte esterna, idonea a dare compiutezza alla fattispecie, nel suo insieme.

Secondo l’assunto preferibile, la rinuncia ha pertanto (e piuttosto) una causa tipica, la quale consiste nella mera dismissione di un diritto da parte del titolare, allo scopo di separare dal proprio patrimonio una data entità giuridica attiva.

Vi è viceversa uniformità di vedute nel descrivere la rinuncia come atto sostanzialmente dismissivo di un diritto, ovvero come atto per mezzo del quale un soggetto esclude volontariamente dalla propria sfera giuridica (patrimonio), perdendola, la titolarità di una posizione giuridica soggettiva.

Questo, con la sottolineatura che lo schema causale della rinuncia, producendo solo effetti negativi, rispetto alla sfera giuridica del suo autore, non può allocarsi né tra i negozi onerosi, né tra quelli donativi.

Detto in altri termini, alla rinuncia è estranea la distinzione tra causa onerosa e causa gratuita, in quanto la sua funzione tipica, sotto questa prospettiva, è essenzialmente neutra.

In conclusione, la rinuncia è un negozio giuridico a causa rigida e “opaca”, determinante un mero effetto dismissivo, il cui contenuto patrimoniale, siccome negativo, non è volto all’arricchimento di una altrui sfera giuridica, ma esclusivamente a depauperare quella del suo autore.

Questa impostazione dottrinale (quella cioè della causa c.d. “costante”) ha il merito indubbio di cogliere la funzione tipica e ricorrente della rinuncia ai diritti, attribuendole una funzione ”asettica” incompatibile con finalità accrescitive della sfera giuridica altrui, gli elementi esterni ad essa sostanziando semplici motivi.

RECETTIZIETÀ DELLA RINUNCIA

Sotto il profilo di valutazione della recettizietà o meno della rinuncia, occorre soffermarsi sui suoi effetti nella sfera giuridica dei terzi.

La rinuncia, come già detto, produce meri effetti dismissivi per la sola volontà del suo autore mentre gli ulteriori effetti sono solo eventuali e riflessi, costituendone la rinuncia una mera occasione. L’oggetto tipico della rinuncia si consuma ed esaurisce nella sfera stessa del dichiarante: il diritto non si perde per trasferirlo ad altri, ma si perde perché si estingue in lui.

In questi termini, la rinuncia può essere considerata quale negozio giuridico unilaterale, non recettizio, per il quale non trova applicazione l’art. 1334 c.c.

Secondo una distinzione prospettata in dottrina, può giovare riportarsi alla valutazione se oggetto della rinuncia è un diritto con soggetto determinato o meno. Nel primo caso, la rinuncia ha di regola carattere recettizio. In questo senso può concludersi che la rinuncia ha carattere normalmente non recettizio senza che il carattere recettizio o meno delle singole ipotesi di rinuncia possa essere elevato a modello generale.

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