La regola logica dell’identità

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Prof. Massimiliano Della Torre

1. Premesse – Il ciclo di incontri si apre con una questione a suo tempo affrontata, sviscerata e sistematizzata da Aristotele nelle sue opere sulla logica (in particolare sulla sillogistica e sui principi logici): sistematizzazione rimasta inconcussa fino al XVIII/XIX secolo. Aristotele muove dal problema di come si possa formulare una proposizione vera e si risponde con la seguente alternativa: o deducendola sillogisticamente (ma del sillogismo aristotelico, in particolare nel diritto, si occuperà altri) o inducendola come risultato di un esame di casi particolari ad essa riferiti; e conclude che la rigorosità di un metodo -o meglio del metodo- si fonda sulla constatazione che al suo inizio siano poste proposizioni immediatamente evidenti per sé e non dedotte da altre. Con ciò introduce altresì la distinzione tra metodo deduttivo, che muove dall’universale per giungere al particolare, e metodo induttivo, che muove dal particolare per risalire all’universale. I principi indimostrabili ed evidenti di per sé sono comuni a tutte le scienze ma proprio perché tali sono conoscibili solo attraverso il nous, l’intelletto: di qui la logica noetica, fondata sull’unitaria ed immediata comprensione intellettuale della realtà, che si differenzia dalla logica dianoetica, fondata sul giudizio, cioè affermazione o negazione di qualchecosa, e sul sillogismo, entrambi volti per loro natura ad attribuire un predicato ad un soggetto. I primi principi logici, indimostrabili ed evidenti di per sé, sono: – il principio di identità; – il principio di contraddizione; – il principio del terzo escluso (o del tertium non datur). Il principio di identità, intuibile con l’intelletto, esprime la necessaria determinatezza e identità con sé stesso del contenuto di ogni esperienza mentale: principio noetico perché non si riferisce al collegamento predicativo di un soggetto e di un attributo. A sua volta, il principio di contraddizione, anch’esso intuibile con l’intelletto, asserisce l’impossibilità logica di attribuire nello stesso tempo e sotto il medesimo rapporto predicati contrari ad un medesimo soggetto: questo principio opera sul piano della conoscenza dianoetica, del giudizio su soggetto e predicato. Il principio di contraddizione introduce il principio del terzo escluso che impone di scegliere tra una affermazione ed una negazione perché, appunto, tertium non datur; anche questo principio, intuibile con l’intelletto, opera sul piano della logica dianoetica. Su questi tre principi si fonda la dottrina aristotelica della definizione: dottrina che discende dal giudizio, ossia dal collegamento di soggetti e predicati. I predicati possono collegarsi ad un soggetto in molti modi; Aristotele ne individua in particolare cinque: genere (genus), specie (species), differenza specifica (differentia specifica), proprium e accidente (accidentale). Ad es., Mevio appartiene al genus “esseri animati (o viventi)”, alla species “uomo”, la differentia specifica del quale rispetto ad altri animali è la razionalità, il proprium è quell’individuo umano individuato come Mevio, e, infine, l’accidentale può essere una qualsivoglia qualità attribuibile a Mevio. Per affrontare il tema posto siamo dovuti ricorrere alle reminiscenze liceali per chiarire che i principi logici appartengono al piano della logica 1 noetica, la quale, a sua volta, è presupposto dei giudizi che operano sul piano della logica e della conoscenza dianoetica, o della ragione discorsiva; quest’ultima si sviluppa attraverso giudizi e sillogismi, cioè attraverso l’attribuzione di predicato a soggetto. La logica dianoetica o discorsiva ci consente di spiegare quanto avviene nei singoli campi del sapere e nel nostro caso del diritto.

2. La logica giuridica -Venendo quindi alla scienza giuridica, essa, in quanto scienza, non può prescindere dai tre fondamentali principi della logica noetica per svilupparsi, poi, attraverso la logica dianoetica; tale schema conoscitivo aristotelico consente di attribuire in diversi tempi anche sotto il medesimo rispetto o nel medesimo tempo sotto diversi rispetti predicati differenti ad un medesimo soggetto senza infrangere nessuno dei tre principi di identità, di contraddizione e del terzo escluso. Centrale nella scienza giuridica è il concetto di ordinamento e, ai giorni nostri, di Stato. Ma anche qui Aristotele è riuscito a dire quanto molti selvaggi ancora nel XVII secolo non riuscivano ad intendere: lo Stato, infatti, non è il risultato convenzionale di un contratto sociale (come, ad es., mostravano di pensare i Padri pellegrini nel loro Mayflower Compact, datato 21 Novembre 1620 -ovviamente, giusta il calendario giuliano-, fondativo delle società d’oltreoceano) ma è il fine ultimo di ogni forma di convivenza sociale in quanto l’uomo -o ogni uomo- è zoon politikon (in termini aristotelici potremmo dire che famiglia e villaggio stanno allo Stato come la potenza sta all’atto o, se si preferisce, come la materia sta alla forma): quindi centrale -o, meglio, centrali[1]in ogni ordinamento sono i soggetti che lo compongono e fondamentale per ogni ordinamento è individuare i soggetti che lo compongono sia con riferimento a sé stesso che con riferimento ai singoli membri tra di loro. Non vale qui addentrarci in distinzioni -con relative implicazioni- tra fas, ius e mos e poi tra ius positum, ius gentium e ius naturale; ci basta rilevare che i principi logici, nel nostro ordinamento, sono pienamente operativi sul piano della successione delle norme nel tempo e nei rapporti tra pluralità di ordinamenti giuridici. A conferma di ciò possiamo richiamare, da un lato, il R.D. 16 Marzo 1942 n. 262, Disposizioni sulla legge in generale, che mostra un ferreo rispetto dei principi logici (di identità, di contraddizione e del terzo escluso); dall’altro, -ma in negativo- il testo attuale della Costituzione della Repubblica italiana, che, a partire dalla L. cost. 16 Gennaio 1989, Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione, attraverso le successive 17 leggi costituzionali di modificazione, ha progressivamente perduto ogni coerenza interna. A conferma, basta porre mente alla L. cost. 20 Aprile 2012, Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, che, con la santificazione del c.d. principio del pareggio di bilancio, contraddice l’intero impianto keynesiano della forma di governo repubblicana (si pensi in particolare alla Parte I, Diritti e doveri dei cittadini, Titt. II, Rapporti etico-sociali, e III, Rapporti economici) o alle ripetute modificazioni della Parte II, Ordinamento della Repubblica, Tit. V, Le Regioni, le Province, i Comuni, in clamorosa contraddizione con l’art. 5 Cost., oltre che con tutti gli impegni posti in capo alla Repubblica, dei quali ai Principi fondamentali (artt. 1-12 Cost.): sembra che i tre principi logici siano radicalmente ignoti agli odierni apprendisti costituenti. Possiamo così verificare che il proprium, il soggetto di diritto Mevio, nato a XX il XX Xxxxxx XXXX, sia all’interno del matrimonio legittimamente contratto tra Tizio e Caia che fuori, non cambia né può cambiare mai la sua identità nel corso della sua vita quanto a genus, species, differentia specifica e, 2 soprattutto, proprium; l’ordinamento, poi, a sua volta, può individuare vari elementi al fine di attribuire a quel soggetto status, diritti, doveri ed obblighi variamente rilevanti ai fini dell’ordinato svolgimento della vita della collettività intera o dei rapporti tra i singoli. Tali elementi possiamo aristotelicamente definire come accidentalia e possono variare nel tempo e nello spazio a seconda del punto di vista giuridico -per quanto ci riguarda- dal quale l’ordinamento prende in considerazione un soggetto qualificandolo a qualche fine. Grazie al ragionamento aristotelico comprendiamo perché un animale uomo divenga -finalmente- un soggetto qualificato con il nome di Mevio ed acquisti, con l’esistere come soggetto, la capacità giuridica. Correttamente il Codice civile stabilisce che la capacità giuridica si acquisti al momento della nascita (art. 1, comma 1, Cod. civ.) ed anche perché i diritti che la legge riconosce a favore del concepito si acquistino solo al momento della nascita (art. 1, comma 2, Cod. civ.): infatti, prima di tale momento, come ben sapeva la giurisprudenza latina, il feto mulieris portio est seu viscerum ma conceptus pro iam natus habetur quotiens de commodis eius agatur, perché il conceptus è Mevio in potenza e, solo forse, lo sarà in atto. E comprendiamo altresì perché sempre lo stesso Mevio acquisti la capacità giuridica al momento della nascita e la capacità di agire al compimento della sua maggiore età (art. 2 Cod. civ.), con quanto ne consegue; o, ancora, acquisti il diritto di ottemperare all’”obbligo” scolastico giusta il disposto delle LL. 10 febbraio 2000 n. 30, Legge-quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione, e 28 marzo 2003 n. 53, Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, ma soprattutto degli artt. 9, 30, 33 e 34 Cost.. E, infine, comprendiamo perché lo Stato ritenga di assicurare la massima certezza, attraverso gli uffici di stato civile, a: nascita, cittadinanza, coniugio e morte: solo così, infatti, Mevio è e rimane per tutta la vita Mevio rispetto all’ordinamento di appartenenza.

3. Operatività di accidentalia con riferimento singole fattispecie – Nell’ambito più specifico del diritto pubblico, vediamo alcuni accidentalia relativi a ciascun soggetto fondamentali per quanto attiene la vita civile (cioè l’essere zoon politikon). Un primo esempio di accidentale che incide sullo status civitatis è costituito dall’elettorato attivo, che designa il diritto di partecipare alla formazione o al rinnovo degli organi collegali o monocratici dello Stato e degli enti locali, ovvero di manifestare la propria volontà in relazione a determinate scelte (referendum) mediante l’espressione del voto: esso è un diritto pubblico soggettivo inerente lo status di cittadino, che è attribuito dall’ordinamento a chiunque abbia raggiunto la maggiore età, salve alcune particolarità. Nella Repubblica italiana esso spetta a “tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età” (art., 48, comma 1, Cost.) e “non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenze penali irrevocabili o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge” (art. 48, comma 3, Cost.). Non mette conto in questa sede ripercorrere le ragioni storico-politiche di tali precetti, occorre piuttosto soffermare l’attenzione su tre aspetti specifici. L’accidentale può essere variamente declinato dall’ordinamento: se, infatti, il diritto di elettorato attivo si acquista al compimento di una certa età (la maggiore, come accennato), non è detto tuttavia che esso possa sempre essere esercitato con l’acquisto: nella Repubblica italiana, ad esempio, il diritto può 3 essere esercitato per l’elezione del Senato della Repubblica solo al compimento del 25° anno di età, e la ratio di tale disposto è pacificamente individuata nella opportunità di formare un’assemblea più ponderata (e più caratterizzata in senso territoriale) rispetto a quella dell’altra camera. Incidentalmente, possiamo qui rilevare che anche in questo caso i nostri attuali costituenti da operetta, ignari delle loro stessa storia, meditino di unificare l’età per l’esercizio dell’elettorato attivo. Altri tre accidentalia di carattere generale per l’acquisto e l’esercizio dell’elettorato attivo hanno avuto rilievo nella storia istituzionale di diversi Stati: sesso, censo e grado di istruzione, la portata dei quali è oggi fortemente ridotta, stante la diffusa affermazione costituzionale del principio di eguaglianza: il diritto di elettorato spetta a tutti i cittadini senza distinzione (c.d. suffragio universale) di sesso, di istruzione e di censo. Ogni accidentale può interferire con altri accidentalia; con riferimento all’elettorato attivo viene in gioco la cittadinanza: se non vi ha dubbio che il godere dello status civitatis sia requisito essenziale per la partecipazione alla formazione degli organi politici di un ordinamento giuridico statuale, non si può non rilevare che tale requisito tende a perdere di rilievo allorché dagli organi politici in senso stretto si passa agli organi politico-amministrativi, per i quali l’accento cade soprattutto sulla gestione degli interessi facenti capo alla popolazione residente su un determinato territorio. Con riferimento a questi enti sembra pertanto che la residenza faccia aggio sulla cittadinanza, e ciò fa sì che anche i cittadini stranieri stabilmente residenti su un territorio godano dell’elettorato attivo: nell’ordinamento italiano godono di elettorato attivo per gli organi degli enti locali i cittadini di Stati membri dell’Unione europea stabilmente residenti in territorio italiano e attualmente si registrano forti pressioni a favore dei cittadini di Stati extracomunitari stabilmente residenti. Connesso con l’elettorato attivo è un altro accidentale: se l’elettorato attivo si acquista ipso iure con il compimento di una certa età, per poter esercitare il diritto è necessario essere iscritti nelle liste elettorali del luogo di residenza. Con l’iscrizione, infatti, l’autorità competente accerta l’acquisto del diritto nonché l’insussistenza di cause d’incapacità o di indegnità e di sentenze di condanna, che incidono sulla titolarità o sul godimento del diritto di elettorato, e assegna infine l’elettore ad una determinata sezione elettorale, nella quale questi potrà, se vorrà, esprimere il proprio voto. Parallelo esempio di accidentale è costituito dall’elettorato passivo, che designa il diritto di essere votati, o, meglio, di proporre la propria candidatura all’attribuzione della titolarità di organi sia monocratici che collegiali per i quali sia prevista l’elezione. Nell’ordinamento della Repubblica italiana “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” (art. 51, comma 1, Cost.). Quanto all’età per l’esercizio del diritto in parola si può ricordare che possono essere prescritti limiti di età diversi al fine di diversificare gli organi da eleggere: nella Repubblica italiana è necessario avere compiuto i 25 anni per poter assumere la carica di Deputato e i 40 per poter assumere la carica di Senatore (mentre è sufficiente il compimento della maggiore età per ricoprire incarichi elettivi negli enti di autogoverno). E’ evidente comunque che requisiti d’età elevati, da un lato, tendono a ridurre i potenziali candidati e, dall’altro, ad aumentare il tono ponderato dell’organo eletto. Anche qui permane la curiosità di sapere quali saranno gli indirizzi dei nostri offenbachiani costituenti. 4 Quanto al sesso, se in generale non sono previste limitazioni che gli si riferiscano, è di grande attualità il tema delle “quote”, ossia delle candidature da riservarsi soggetti dell’uno o dell’altro sesso al fine di renderne manifesta l’eguaglianza anche nelle sedi di gestione della cosa pubblica. Il criterio della riserva di quote può comunque incidere sia positivamente che negativamente sull’esercizio del diritto di elettorato passivo: positivamente se ottiene nella pratica ciò che si propone; negativamente perché nemo ad factum cogi postest. Quanto ad accidentalia su accidentalia, possiamo, infine, accennare agli istituti della ineleggibilità, della incompatibilità e della incandidabilità nonché della richiesta di sottoscrizioni per la presentazione di liste e di candidature. L’istituto della ineleggibilità si fonda sulla presunzione iuris et de iure che l’attività svolta da chi intende proporre la propria candidatura sia in qualche modo in grado di influenzare la volontà degli elettori e quindi di alterare quelle condizioni di parità fra tutti i candidati, le quali costituiscono fondamento di libere elezioni; tale turbativa è ritenuta tanto grave dall’ordinamento italiano da sanzionare con la nullità l’elezione eventualmente avvenuta in spregio della sussistenza di una causa di ineleggibilità. L’istituto della incompatibilità si fonda sulla presunzione iuris tantum della impossibilità di svolgere con il dovuto impegno e con la dovuta correttezza due o più incarichi pubblici elettivi contemporaneamente; la sanzione prevista dall’ordinamento per chi si venga a trovare titolare di due incarichi contemporaneamente è costituita dall’annullabilità dell’elezione eventualmente avvenuta in spregio della sussistenza di causa di incompatibilità; si tratta di sanzione meno grave della precedente, tanto più che lo stesso soggetto sanzionabile può sanare la situazione optando per l’una o per l’altra carica. Ulteriore accidentale, comparso di recente nell’ordinamento della Repubblica italiana con riferimento all’elezione di Sindaci, Presidenti di province e di Consiglieri comunali o provinciali è quella della incandidabilità: con essa la legge limita la possibilità di candidarsi a Consigliere comunale e provinciale a due soli collegi quando i comizi elettorali si tengano nella stessa data ed altresì vieta la presentazione della propria candidatura a Sindaco o a Presidente della provincia in più di un comune o di una provincia; vieta, inoltre, che consiglieri comunali e provinciali in carica possano candidarsi alla medesima carica in altro consiglio comunale o provinciale. La ratio dell’istituto è quella di evitare che soggetti noti o che comunque godano di uno speciale credito presso il pubblico, possano con la solo loro candidatura o presenza in liste elettorali attrarre i voti degli elettori, pur sapendo che comunque non intendono o non potranno ricoprire più di una carica. Sembra potersi ricondurre alla categoria della incandidabilità anche la limitazione alla titolarità successiva nel tempo di più di un certo numero di mandati: la ratio del divieto in parola può collegarsi ad un timore, per così dire, assolutistico di eccessiva personalizzazione della carica.

4. Conclusioni – Quanto qui sommariamente illustrato con riferimento ad alcune posizioni giuridiche soggettive, attive e passive, può essere svolto con riferimento a tutte le altre posizioni giuridica attive e passive del nostro come di qualsivoglia ordinamento. Quello che qui interessa sottolineare è che, se non ci fosse un soggetto giuridicamente individuato (proprium) e capace, tutti i requisiti o le qualità, o accidentalia, sommariamente scorse con riferimento ad alcuni istituti, non avrebbero alcun significato, alcuna efficacia ed alcuna efficienza, sarebbero essenzialmente inutili, come ci rammenta anche Don Ferrante (I promessi sposi, 5 cap. XXXVII) con riferimento al contagio: “In rerum natura non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. […] Riman da vedere se possa essere un accidente. Peggio che peggio. […] verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno a calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro.”.

 

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