Cass. Civ., sez. lav., ord.,. 17 dicembre 2019, n. 33407
[Omissis].
RITENUTO
1. Che la Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 340 del 2014, pronunciando sull’impugnazione proposta dal Comune di Barletta nei confronti di […], ha accolto l’appello, e per l’effetto ha revocato il decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di Trani, con cui era stato ingiunto al suddetto Comune di pagare, in favore di senza parole […]., la somma di € 512,27, oltre rivalutazione.
2. […] aveva prestato attività lavorativa in favore della società SIUCA S.r.l., ed era stato illegittimamente licenziato dalla medesima società.
A seguito di reintegra nel rapporto di lavoro, giusta sentenza del Tribunale di Trani, il datore di lavoro era stato condannato al risarcimento del danno e alla corresponsione delle retribuzioni non percepite dal lavoratore.
In ragione del fallimento della suddetta società, il lavoratore aveva insinuato nel passivo fallimentare il proprio credito.
Poiché il Comune di Barletta era debitore nei confronti della società SIUCA s.r.l. (datore di lavoro) in forza di lodo arbitrale, il lavoratore aveva attivato la tutela monitoria ai sensi dell’art. 1676 c.c. a seguito della quale il Tribunale aveva emesso il decreto ingiuntivo.
L’opposizione proposta dal Comune veniva rigettata.
La Corte d’Appello accoglieva l’opposizione, sia in ragione della mancanza di prova della pretesa creditoria da parte del […], sia perché la fattispecie non era riconducibile all’art. 1676 c.c..
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre […] prospettando sei motivi di ricorso.
Resiste il Comune con controricorso.
In prossimità dell’adunanza camerale il lavoratore ha depositato memoria.
CONSIDERATO
Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416, 167 e 112 c.p.c., degli artt. 2697, 2909, 1292, 1306, 1676 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3; erra la Corte d’Appello n. ella ricognizione della fattispecie astratta, disattendendo il principio di contestazione specifica del novellato art. 115 c.p.c., ritenendo che la regola processuale ivi dettata sia quella osservata dal Comune ingiunto, che contesta le allegazioni del ricorso attraverso clausole generiche e di stile, richiedendo invece le suddette norme contestazioni specifiche.
La Corte d’Appello avrebbe erroneamente interpretato la fattispecie astratta recata dalle suddette disposizioni.
Correttamente, invece, il Tribunale aveva ritenuto la mancanza di specifica contestazione da parte del Comune e l’obiettiva affermazione di verità della sentenza relativa alla vicenda presupposta, allegata al ricorso introduttivo del giudizio.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416, 167 e 112 c.p.c., degli artt. 2697, 2909, 1292, 1306 e 1676 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, e nullità in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione della regola processuale di vincolata esenzione dalla valutazione delle prove in ragione della mancata contestazione specifica da parte dell’ingiunto; erra la Corte d’Appello nel ritenere di procedere alla valutazione della prova invece di astenersi dalla medesima.
Ed infatti, la Corte d’Appello non aveva tenuto conto della mancanza di specifica contestazione ex art. 115 c.p.c., né aveva considerato il valore di affermazione obiettiva di verità della sentenza resa nei confronti della società SIUCA s.r.l.
Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416, 167, 112, c.p.c., degli artt. 2697, 2909, 1292, 1306 e 1676 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, e nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, ai sensi dell’art. 112 c.p.c.; erra la Corte d’Appello nel rilevare d’ufficio l’estraneità del credito in questione alla disciplina dell’art. 1676 c.c..
Assume il ricorrente che l’opponente non aveva mai eccepito quanto rilevato d’ufficio dalla Corte d’Appello, e cioè l’essere la natura risarcitoria del credito da reintegra estranea alla sfera di applicazione dell’art. 1676 c.c. Pertanto, il giudice di appello aveva violato l’art. 112 c.p.c.
Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1676 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3; erra la Corte d’Appello nel ritenere estranea alla suddetta norma la natura del credito per retribuzioni arretrate da illegittimo licenziamento.
Ciò che rileva è il collegamento all’appalto e non la natura del credito.
Afferma il ricorrente che le retribuzioni non percepite nel periodo di ingiusto licenziamento (a prescindere dalla loro natura retributiva, risarcitoria o indennitaria) rientrano nel contratto d’appalto utile al committente.
Dunque, è il nesso tra appalto e licenziamento e non la natura del credito a valere per agire nel rapporto trilaterale in materia di appalto.
Riservando al seguito l’esame del quinto e del sesto motivo di ricorso, si rileva che ha priorità logica e giuridica l’esame dei motivi terzo e quarto, in quanto entrambi, sotto diversi profili, attengono alla statuizione del giudice di appello che ha escluso l’applicabilità dell’art. 1676 c.c., e quindi la possibilità di azionare il credito in questione nei confronti del Comune.
Il terzo motivo non è fondato.
Nella specie la Corte d’Appello ha escluso la sussumibilità della fattispecie in esame nell’ambito di applicazione dell’art. 1676 c.c.
Non vi è dunque questione di carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso, rispetto a cui il ricorrente deduce la non rilevabilità d’ufficio, ma l’applicazione del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, c.p.c., in virtù del quale il giudice ha il potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonché all’azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purché i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidano con quelli della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, essendo allo stesso vietato, in forza del principio di cui all’art. 112 c.p.c., porre a base della decisione fatti che, ancorché rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti, il cui esercizio con le connesse questioni è rilevabile di ufficio dal giudice se risultaste dagli atti di causa (in Cass., n. 8645 del 2018, n. 30607 del 2018).
Nella specie la Corte d’Appello ha rigettato la domanda del lavoratore in quanto erroneamente fondata sull’applicabilità dell’art. 1676 c.c. ai fatti di causa.
Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Con giurisprudenza consolidata, riaffermata dalla recente ordinanza n. 7887 del 2019 che la richiama, questa Corte ha affermato che la norma dell’art. 1676 c.c. attribuisce ai dipendenti dell’appaltatore una azione diretta (per conseguire quanto loro dovuto per effetto dell’attività prestata in relazione all’opera o servizio appaltato) nei confronti del “committente”, con disposizione applicabile anche al subappaltatore pur sempre in relazione al “committente” del datore di lavoro, che nel contratto di subappalto è il primo appaltatore e non già il committente originario.
Per consolidata giurisprudenza di questa Corte lo scopo dell’art. 1676 c.c. è quello di determinare la indisponibilità del credito dell’appaltatore-datore di lavoro nei confronti del committente, al fine di garantire i lavoratori che hanno prestato la loro opera per la esecuzione dell’appalto, sicché dal momento in cui gli ausiliari dell’appaltatore si rivolgono al committente questi diviene diretto debitore, in solido con l’appaltatore, fino alla concorrenza del proprio debito per il corrispettivo dell’appalto e, se paga all’appaltatore, non è liberato dalla obbligazioni verso gli ausiliari (Cass., n. 10439 del 2012).
Consegue alla ratio della norma, come già chiarito da questa Corte (Cass., n. 23489 del 2010) che l’azione diretta proposta dal dipendente dell’appaltatore contro il committente per conseguire quanto gli è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al momento della proposizione della domanda, è prevista dall’art. 1676 c.c. con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza dell’attività svolta per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio oggetto dell’appalto, e non anche con riferimento ad ulteriori crediti, pure relativi allo stesso rapporto di lavoro.
Peraltro, tale interpretazione trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte (si v., ex multis, Cass., n. 28517 del 2019, n. 10354 del 2016) che in relazione al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, che detta il regime della responsabilità solidale del committente con l’appaltatore di servizi opera, ha affermato che tale disposizione deve essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti ed ha pertanto escluso (cfr.., Cass., n. 27678 del 2018) l’applicabilità del predetto regime alle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo.
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi sopra esposti, ed è dunque immune dalle censure che le sono state mosse.
Può passarsi all’esame del primo e del secondo motivo di ricorso, che devono essere trattati insieme in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili per carenza di interesse.
Come si è accennato, la Corte d’Appello ha posto a fondamento della decisione due distinte rationes decidendi. La domanda del lavoratore [N.d.a.] sia in ragione della mancanza di prova della pretesa creditoria, sia perché la fattispecie non era riconducibile all’art. 1676 c.c.
Una volta esclusa la fondatezza dei motivi di ricorso volti a censurare una delle plurime rationes decidendi — come nella specie in ragione del rigetto del terzo e del quarto motivo di ricorso vertenti sull’applicabilità dell’art. 1676 c.c. — opera il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, “qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alte altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass. n. 2108 del 2012, n. 27206 del 2017).
Vengono in esame gli ultimi due motivi di ricorso.
Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1676, 2935, 2945, 2953 e 1310 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; infondatezza delle eccezioni di prescrizione del credito e insussistenza del debito della committente verso l’appaltatrice — sollevate dall’appellante e dichiarate assorbite dalla Corte d’Appello.
Alla non fondatezza e alla inammissibilità dei motivi di ricorso che precedono segue il rigetto della censura in esame.
Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 112, 91 e 92 c.p.c., e nullità in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, della compensazione delle spese derivanti da violazioni e nullità dei motivi precedenti.
In ragione dell’art. 91 c.p.c., il giudice di appello avrebbe dovuto condannare il Comune alle spese e competenze dell’intero giudizio, sia di primo che di secondo grado.
Il motivo non è fondato.
Correttamente, in ragione della soccombenza integrale, atteso che la sentenza di appello ha riformato la sentenza di primo grado revocando il decreto ingiuntivo, la regolazione delle spese di lite è avvenuta ai sensi dell’art. 91 c.p.c., con la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale delle stesse.
La Corte rigetta il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, oltre € 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
[Omissis].