Cass. Civ., sez. II, 22 marzo 2011, n. 6492

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Cass. Civ., sez. II, 22 marzo 2011, n. 6492

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Insorte contestazioni tra la società Immobiliare Morlacchi s.n.c., committente, e l’Impresa […] individuale appaltatrice, in ordine all’esecuzione di lavori edili in Perugia, di cui alla scrittura privata del 31 marzo 1999, in forza della clausola compromissoria ivi contenutala prima attivò il procedimento arbitrale, al precipuo fine di sentir dichiarare risolto il contratto per inadempimento della controparte, con la conseguente condanna al risarcimento dei danni. All’esito della svolta istruttoria, sulle opposte conclusioni delle parti, il collegio arbitrale pronunziò il lodo in data 21 giugno 2001, con il quale:

a) accertava la persistente efficacia, in quanto non risolto, del contratto;

b) determinava in complessive L. 653.827.638 il compenso dovuto all’appaltatrice per i lavori svolti fino alla data della decisione;

c) determinava in L. 4.870.000 l’importo dei danni cagionati a terzi e dovuti dall’impresa alla committente;

d) determinava in L. 17.123.455 l’importo del risarcimento dovuto alla committente per vizi e difetti delle opere;

e) operava la compensazione parziale tra il residuo corrispettivo ancora dovuto all’impresa e le somme dalla stessa dovute a titolo di risarcimento;

f) condannava la società committente al pagamento della differenza in L. 331.834.183, oltre interessi ed IVA;

g) respingeva ogni altra domanda delle parti.

Tale decisione veniva impugnata, con sette motivi, dalla suddetta società; si costituiva e resisteva l’impresa, proponendo gravame incidentale; quindi l’adita Corte d’Appello di Perugia, con sentenza del.. 1º aprile – 24 maggio 2004,, respingeva le impugnazioni, ponendo le spese del giudizio a carico dell’impugnante principale.

Dopo una premessa su natura e limiti, ex artt. 827 e 829 c.p.c., del giudizio di impugnazione dei lodi arbitrali,; la Corte suddetta, a sostegno della decisione, esponeva sommariamente le seguenti ragioni:

  • insussistenza della dedotta violazione dell’art. 1453 c.c., comma 1, art. 1454 c.c., art. 1456 c.c., comma 2 e art. 1457 c.c., involgendo sostanzialmente le proposte censure questioni non di diritto, ma di mero fatto, su valutazioni — peraltro travisate dall’impugnante in —- compiute dagli arbitri, i quali avevano accertato la volontà della committente, esternata tramite il direttore dei lavori, di rinunziare alla risoluzione;
  • ininfluenza della dedotta violazione dell’art. 1662 c.c., considerato che, secondo la scansione temporale ricostruita dagli arbitri, la relativa ipotesi di risoluzione a seguito di intimazione sarebbe intervenuta prima della, pure accertata, rinunzia, restando così assorbita la questione;
  • questa, peraltro, si palesava infondata, poiché la lamentata mancata restituzione della contabilità sottoscritta non atteneva all’esecuzione dell’opera, secondo contratto e a regola d’arte, cui fa riferimento la disposizione, e la valutazione compiuta dagli arbitri, circa il carattere secondario di tale assunta inadempienza, costituiva questione di mero fatto;
  • del pari assorbita, dalla reiezione del primo, risultavano le censure contenute nel terzo motivo, deducente violazione degli artt. 1218 e 1662 c.c.;
  • anche la dedotta violazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, correlata all’impiego nell’impresa di lavoratori irregolarmente assunti, si risolveva in censure di fatto, avendo gli arbitri, con “motivazione autosufficiente”, rilevato che non risultava inoltrata dall’appaltatrice alcuna diffida al riguardo e che, agli effetti degli artt. 1453 e 1455 c.c., detta assunzione non avrebbe potuto assumere il carattere dell’inadempimento di non scarsa importanza, tale da giustificare la risoluzione;
  • assorbita dalla reiezione della precedente censura restava quella, contenuta nel quinto motivo, relativa alla violazione dell’art. 1453, comma 3, secondo cui sarebbe stata erroneamente ritenuta prontamente sanata l’inadempienza, costituita dall’assunzione di lavoratori “in nero”;
  • la denunciata violazione del D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, art. 26 e R.D. 25 maggio 1885, n. 350, art. 54, per erronea esclusione dell’applicabilità della disciplina dei pubblici appalti, nella specie richiamata dall’art. 8 del contratto, involgeva in realtà una questione di interpretazione di quest’ultimo, come tale non rientrante tra quelle di diritto deducibili in sede di impugnazione dei lodi arbitrali;
  • inconferente era la dedotta violazione dell’art. 1665 c.c. e art. 100 c.p.c., sul rilievo che il diritto al saldo del corrispettivo fosse azionabile solo al termine dei lavori, essendo si il collegio arbitrale limitato a liquidare quanto dovuto per i lavori eseguiti alla data del lodo;
  • infondata, infine, era l’impugnazione incidentale, lamentante una “sbrigativa” reiezione della domanda risarcitoria per il fermo del cantiere, risultando chiaramente esposta e non contraddittoria la relativa ratio decidendi, secondo cui detta stasi era risultata imputabile anche all’appaltatrice, “che pretendeva prezzi non corrispondenti alle tariffe pubbliche”.

Avverso la suddetta sentenza la società Immobiliare Morlacchi s.n.c. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Ha resistito l’Impresa […] con controricorso, contenente ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei reciproci ricorsi. Con Il primo motivo del ricorso principale, deducente malgoverno dell’art. 829 c.p.c., comma 2, art. 1453 c.c., artt. 1454 e 1456 c.c., comma 2 e art. 1457 c.c., con connessi vizi di motivazione, si censura la reiezione del primo motivo dell’impugnazione del lodo, confutando sia l’affermazione che l’accertamento della rinuncia alla risoluzione si sarebbe risolta in una questione di mero fatto e quella secondo cui tale rinuncia sarebbe stata correttamente accertata.

Sotto il primo profilo la Corte umbra non si sarebbe conformata al principio giurisprudenziale di legittimità, secondo cui competerebbe al giudice, ex art. 829 c.p.c., comma 2, “accertare sia la fattispecie legale costitutiva della domanda sia la corrispondenza tra fatto storico accertato e fattispecie legale”.

Sotto il secondo si sostiene che, essendo i compiti del direttore dei lavori limitati alla direzione e sorveglianza delle opere, e dunque ad una rappresentanza soltanto “tecnica” della committenza, egli non avrebbe potuto rinunziare alla risoluzione, per conto della stessa, né comunque manifestare la relativa volontà alla controparte.

Il motivo non merita accoglimento, non evidenziando alcuna specifica violazione delle norme di diritto, cumulativamente richiamate dalla ricorrente, né alcuna carenza della motivazione, su punti decisivi, della sentenza impugnata, bensì risolvendosi nel tentativo, inammissibile nella presente sede, così come lo era alla luce dei limiti cognitivi dettati dall’art. 829 c.p.c. nel giudizio svoltosi davanti alla Corte territoriale, di rimettere in discussione l’interpretazione della risultanze processuali, con particolare riferimento ad un accertamento di fatto, concernente l’avvenuta rinunzia da parte della committente alla già intimata pretesa risolutoria. Tale rinuncia era stata dagli arbitri desunta, come la Corte territoriale ha dato atto, non ascrivendo impropri poteri rappresentativi, eccedenti la mera sfera tecnica, al direttore dei lavori, bensì dai comportamenti concludenti dell’una e dell’altra parte (segnatamente, l’invio di una nuova contabilità, modificativa della precedente e tenente conto di alcune osservazioni dell’appaltatore, la prosecuzione dei lavori), denotanti l’avvenuta composizione del contrasto precedentemente insorto, ritenuti incompatibili, per la parte riferibile alla odierna ricorrente, con l’intenzione di persistere nella suddetta. Il tutto in un contesto in cui, come accertato dagli arbitri e riferito dalla Corte d’Appello, il comportamento del direttore dei lavori non si era concretato in iniziative o atti volitivi, al medesimo direttamente riferibili, ma era consistito in quello di semplice nuncius, tramite il quale la committenza aveva lasciato chiaramente intendere di desistere dalla pretesa risolutoria, parzialmente accedendo ai precedenti rilievi dell’appaltatore e lasciando proseguire i lavori.

Con il secondo motivo, deducente violazione, falsa o errata applicazione degli artt. 1662, 1218 c.c. e art. 829 c.p.c., comma 2, si lamenta che la corte territoriale, nel respingere il secondo motivo d’impugnazione, abbia “erroneamente ricostruito la fattispecie storica in contestazione”, ritenuto che la stessa riguardasse la sola restituzione della contabilità, laddove era stata, più in generale, dedotta la violazione dell’obbligo di cooperazione tra le parti, in considerazione della quale era stata intimata la diffida ex art. 1662 c.c.. Questa prevedendo un rimedio risolutorio diverso da quello generale di cui all’art. 1453 c.c., non richiederebbe alcuna valutazione di gravità; sicché la facoltà di risoluzione, previa diffida, competerebbe anche nei casi di inadempimenti temporanei e di scarsa importanza e comportanti solo pericolo. Comunque, anche tale valutazione sarebbe stata erronea, non avendo considerato l’importanza del possesso della contabilità controfirmata, durante lo svolgimento delle opere, ai fini della verifica della regolare esecuzione e dei pagamenti effettivamente dovuti, in un contesto nel quale il comportamento adempiente della committente era stato accertato con statuizione non impugnata e passata in giudicato.

Il mezzo d’impugnazione resta assorbito dalla reiezione del precedente, attenendo a rationes decidendi subordinate, che la Corte d’Appello ha ritenuto di esporre, per ravvisati motivi di completezza ed a fini rafforzativi della decisione, pur non essendovi tenuta, in considerazione del pronunziato rigetto del motivo d’impugnazione del lodo, avverso l’assorbente accertamento ivi contenuto dell’avvenuta rinunzia alla risoluzione, conseguente ai suesposti profili d’inadempimento.

Con il terzo motivo si lamenta omessa pronunzia, in violazione dell’art. 112 c.p.c. e violazione dell’art. 14 di 53 c.c., D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, art. 1661 c.c., con riferimento alla reiezione dei motivi in relativi all’assunzione dei lavoratori “in nero”.

La Corte umbra, nell’escludere che la diffida avesse contemplato tale irregolarità, avrebbe anzitutto errato nel ricondurre la censura all’art. 1662 c.c., laddove la stessa era stata correlata all’art. 1453 c.c. ed, in secondo luogo, non avrebbe, nel confermare comunque la scarsa importanza di tale inadempienza, considerato che la natura di ordine pubblico della disposizione di legge speciale violata, avrebbe comportato di per sé la gravità dell’inadempimento e la conseguente risoluzione del contratto, essendo tale facoltà espressamente prevista anche dall’art. 5, comma 1, lett. e) cit. d.lg.

Anche tale motivo, sgomberato il campo dal profilo relativo all’art. 1662 c.c. (avendo la ricorrente dichiarato di non aver proposto un corrispondente motivo di gravame al riguardo) va respinto, poiché rimette in discussione valutazioni di merito compiute dal collegio arbitrale, della cui adeguatezza la Corte d’Appello, attenendosi ai già citati limiti cognitivi del giudizio impugnatorio demandatole (analoghi a quelli propri del giudizio per cassazione), ha dato atto, evidenziando, con riferimento al profilo attinente alla risolubilità del contratto ex art. 1453 c.c., dell’“autosufficienza” — e dunque dell’incensurabilità — della motivazione al riguardo adottata dagli arbitri, secondo cui l’impiego di manodopera irregolarmente assunta, “per l’occasionalità e scarsa entità del fenomeno”, non era tale da superare la soglia della scarsa importanza ex art. 1455 c.c., sì da assurgere a rilevanza risolutoria. La citata argomentazione, pur nella sua sinteticità, risulta corretta e sufficiente, poiché la valutazione della gravità dell’inadempimento, ai fini della risoluzione del contratto, è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, sicché ove adeguatamente motivata, in assenza di errori di diritto o illogicità testualmente rilevabili, è insindacabile in sede di legittimità. E tale dovendo considerarsi anche il giudizio ex art. 829 c.p.c., non era tenuta la Corte territoriale a rinnovare la valutazione ex artt. 1453, 1455 c.c., che gli arbitri avevano compiuto, escludendo che nell’economia complessiva del contratto le suddette irregolarità, ritenute di natura episodica (le contrarie allegazioni contenute nel mezzo d’impugnazione concretano al riguardo palesi censure in fatto), fossero tali da alterare sensibilmente l’equilibrio del rapporto sinallagmatico, così assurgendo a rilevanza risolutoria. Né fondata deve ritenersi la denuncia di violazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, in cui sarebbero incorsi gli arbitri e, di riflesso, la Corte d’Appello avallandone il giudizio di scarsa rilevanza ai fini delle citate norme civilistiche, delle irregolari assunzioni di lavoratori dipendenti da parte dell’impresa appaltatrice. A parte, invero, la discussa e discutibile riconducibilità di tali irregolarità al novero di quelle contemplate dalla normativa anzidetta, avente quale precipuo oggetto la sicurezza e la salute nei cantieri di lavoro, va osservato che, se è vero che la contrarietà a norme di ordine pubblico può direttamente incidere sul rapporto, determinandone la nullità ex art. 1418 c.c., ove la causa del negozio stesso sia incompatibile con le relative disposizioni imperative, ai diversi fini della risoluzione contrattuale il comportamento di una delle parti, che abbia violato tali norme, può assurgere a rilevanza ex art. 1453 c.c., soltanto nei casi in cui, ledendo concretamente e direttamente gli interessi dell’altra, sia di natura ed entità tali da compromettere l’adempimento della prestazione dedotta nel contratto, e, dunque, l’equilibrio sinallagmatico del rapporto. Tale valutazione avrebbe dovuto comunque essere compiuta — come lo è stato — dal giudice di merito, considerato che le disposizioni di cui all’art. 5 cit. D.Lgs. (pur come novellato dal D.Lgs. n. 528 del 1999, emanato dopo la stipula del contratto) richiamate nel motivo, non conferiscono al “Coordinatore della Sicurezza” una potestà sanzionatoria tale da incidere, come sembra sostenersi nell’impugnazione, direttamente sul rapporto committente – appaltatore, e determinarne la risoluzione automatica, né da luogo ad una presunzione iuris et de iure di gravità agli effetti risolutori ex artt. 1453 e 1455 c.c. della valutazione compiuta dal suddetto organo di vigilanza, i cui poteri al riguardo consistono, come pur si precisa nel ricorso, nelle facoltà di segnalare al committente le rilevate infrazioni e proporre la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o la risoluzione del rapporto.

Siffatta proposta, ovviamente, deve esser fatta propria dalla committenza (in difetto è previsto l’obbligo di rapporto agli uffici preposti), ma è priva, anche nell’ipotesi in cui la stessa sia stata recepita e trasfusa in una diffida (peraltro nella specie non intimata) o in una successiva azione risolutoria, di alcun carattere vincolante, non sottraendosi l’eventuale conseguente domanda giudiziale alla dovuta valutazione ex artt. 1453 -1455 c.c. da parte del giudice di merito, implicante un apprezzamento di natura discrezionale, al medesimo riservato.

Tale valutazione, adeguatamente compiuta nella specie dagli arbitri con esito negativo, non avrebbe potuto essere oggetto di revisione in sede di giudizio ex art. 829 c.p.c. né, a fortiori, in quello di cassazione. Vanamente, pertanto, l’impugnante si diffonde in argomentazioni, di pura natura fattuale, dirette a dimostrare che le anzidette violazioni, che i giudici hanno ritenuto episodiche e di oggettivo scarso rilievo nell’economia complessiva del rapporto, fossero state invece tali da alterare l’equilibrio contrattuale e mettere direttamente in pericolo gli interessi della committente; tanto dicasi, in particolare, per le ipotizzate possibilità di coinvolgimenti civili e penali, palesemente improbabili, considerato che, a parte le ipotesi di consapevole concorso o di eccezionale limitazione dell’autonomia operativa a guisa di nudus minister, nell’esecuzione delle opere commessegli è solo l’appaltatore , e non anche il committente, ad assumere nei rapporti esterni ogni responsabilità.

Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 2, artt. 1363 e segg. c.c., con conseguente omessa pronunzia in violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla dichiarata inammissibilità della doglianza, relativa alla mancata applicazione della normativa sugli appalti pubblici, con specifico riguardo alla disciplina delle “riserve”, ritenuta dagli arbitri non applicabile in mancanza di “concordamento” e che, invece, avrebbe dovuto ritenersi applicabile, come imposto da una espressa clausola contrattuale, l’art. 8, e dall’interpretazione del capitolato speciale “ai sensi degli artt. 1362 e ss. c.c. (e, in particolare, dall’art. 1363 c.c.) … alla luce delle corrispondenti previsioni del capitolato generale”.

Il motivo si risolve in una censura inammissibile, non solo perchè rivolto contro una statuizione della sentenza di merito che, correttamente attenendosi ai limiti devolutivi ex art. 829 c.p.c., già in precedenza precisata, si è limitata ad evidenziare come la doglianza de qua si risolvesse in una pretesa di reinterpretazione del contenuto contrattuale in ordine alla quale i precedenti giudici di merito si erano sufficientemente, anche e soprattutto per genericità e difetto di autosufficienza, non precisando, nell’omnicomprensiva citazione, gli specifici profili d’inosservanza dei canoni ermeneutici asseritamente violati, ai fini dell’assunta, disattesa, interpretazione complessiva di cui all’art. 1363 c.c. (su cui sembra insistere il mezzo d’impugnazione), il preciso testuale contenuto delle clausole in questione, così non consentendo di valutare la rilevanza e decisività della doglianza.

Con il quinto motivo si deduce, infine, violazione e falsa applicazione degli artt. 829 c.p.c., comma 2, art. 1453 c.c., comma 3 e dell’art. 112 c.c., per aver la Corte, con l’argomentazione sub e) omesso la pronunzia relativa alla denunciata violazione degli artt. 1218, 1662, e 1453 c.c. relativamente alla questione dell’assunzione dei lavoratori irregolari, sulla base degli erronei presupposti dell’avvenuta rinuncia alla risoluzione e della non gravità della relativa inadempienza.

Trattasi, con ogni evidenza, di censure ripetitive e riassuntive di quelle esposte nei primi tre motivi, dei quali non si può [N.d.a.] che condividere il rigetto.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale vengono dedotti violazione o errata applicazione degli artt. 1218, 1223, 2043 c.c. e connessi vizi di motivazione, nella reiezione della domanda risarcitoria proposta, in via incidentale, dall’impresa, per danni dovuti al fermo dei lavori.

La Corte di merito non avrebbe considerato i vari profili d’inadempienza emersi a carico della committente, che avevano costretto l’impresa a subire una sospensione dei lavori da parte dell’autorità, a chiedere una concessione in sanatoria, e non tenuto conto delle continue variazioni progettuali richieste dalla committenza e del susseguirsi delle conseguenti disposizioni impartite dal direttore dei lavori, determinanti l’irregolare svolgimento degli stessi; per converso, la ravvisata corresponsabilità dell’impresa per aver richiesto la revisione dei prezzi, sarebbe stata insussistente, tenuto conto delle giustificazioni derivanti dalle suesposte ragioni e, comunque, avrebbe comportato, quanto meno, la ripartizione al 50% dei documentati oneri aggiuntivi, segnatamente di quelli per la custodia del cantiere.

Anche tali censure vanno disattese, attaccando valutazioni di fatto compiute dal collegio arbitrale e la relativa presa d’atto da parte della Corte territoriale, che, chiamata a pronunziarsi sulla ritenuta violazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 3, non avrebbe potuto rinnovare l’indagine di merito, a meno di totale carenza o apparenza (e non di semplice vizio parziale ex art. 360 c.p.c., n. 5) della relativa motivazione; ipotesi nella specie non sussistenti, avendo i precedenti giudici chiaramente esposto le ragioni in base alle quali avevano escluso la sussistenza della responsabilità risarcitoria.

Pertanto, anche il dedotto vizio di motivazione illogica, per non aver tratto le conseguenze derivanti dal ravvisato concorso di responsabilità, si risolve in una censura inammissibile.

Conclusivamente, vanno respinti sia il ricorso principale, sia quello incidentale, e, tenuto conto della reciproca soccombenza, integralmente compensate le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio.

[Omissis].

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